Evviva gli approcci obliqui, traversali, sghembi, marginali. Gli unici probabilmente a dare linfa nuova alle cose. Ci voleva uno storico, visceralmente liberale, per ripensare secoli di letteratura italiana. Paolo Luca Bernardini, brillante studioso che ci ha regalato rigorosi studi come il recente Georg Moenius: Un prete cattolico contro il nazionalsocialismo (1890-1953), ha appena pubblicato Le lettere e gli spiriti. Itinerari eccentrici nella letteratura italiana (Aesthetica, pp. 234, 22 euro).
Si tratta di trentun agili pezzi per rimeditare la nostra letteratura, dal Rinascimento fino a oggi trentun suggerimenti di scoperta (o meglio riscoperta) e lettura. Le cose con Bernardini nascono da lontano, da quando uno dei suoi maestri, Edoardo Sanguineti, gli disse: "I canoni, posto che siano utili, vanno sempre riscritti e ripensati, se no si fa il gioco del potere". Si comincia, quasi con fare investigativo, sulle tracce di una traduzione perduta da Lucrezio di Giovan Francesco Muscettola, che operò nella Napoli spagnola di primo Cinquecento e tradusse Lucrezio in endecasillabi sciolti, suscitando all'epoca accese reazioni (il pezzo, naturalmente, è anche l'occasione per riflettere sul peso di Lucrezio nella nostra cultura non di poco conto se pensiamo all'ultima traduzione per mano di Milo De Angelis).
I rapporti con la cultura ebraica (difficilmente ahinoi studiati dagli italianisti, banalmente perché non conoscono l'ebraico, ma interessantissimi e ben presenti) vengono sviscerati nel saggio dedicato a Mosè Zacuto e al suo Inferno allestito, una sorta di versione talmudica e cabalistica del capolavoro dantesco in pieno Seicento barocco, con i cortocircuiti del caso. Si recupera e ribadisce la centralità di Giacomo Casanova, spesso e volentieri trattato come una mera curiosità, ma invece scrittore fondamentale del Settecento, se non altro per lo spettro delle lingue usate (oltre all'italiano, francese, veneto, latino) e dei temi trattati (oltre alla modernissima Histoire de ma vie, il fantascientifico Icosameron, un Verne prima di Verne, i Dialoghi sul suicidio, ma anche una enciclopedia dei formaggi, a oggi irreperibile, ma come giustamente invita Bernardini, urgerebbe "mettere ordine tra i suoi inediti, e andare a caccia di quelli dati per scomparsi"). E Casanova si trascina dietro anche la menzione di un praticamente sconosciuto Jacopo Stellini da Cividale, maestro del venexian, "filosofo quasi del calibro di Vico" (sarà il caso che qualcuno si prenda la briga di occuparsene per confermare o smentire, non importa, anche se i garanti rispondono a nomi come Benedetto Croce ed Eugenio Garin). E poi l'importanza di Ippolito Nievo, cui ci associamo per l'ennesima volta: "ancor rode che le Confessioni non affianchino (perlomeno) i Promessi Sposi tra le letture obbligatorie nelle scuole. Il monopolio di Manzoni ha qualcosa di inspiegabile e sconcertante".
Posizione, quella su Nievo, anche di Pier Vincenzo Mengaldo, decano degli italianisti (ma alla fine di pochi altri happy few, in fondo il magistero manzoniano fa ancora paura, evidentemente), che reputava le Confessioni l'unico nostro romanzo ottocentesco davvero europeo, degno di giocarsela alla pari con quelli di Balzac o Dostoevskij. Veleggiando verso il Novecento, ecco Emanuel Carnevali, di cui anni fa Adelphi pubblicò Il primo dio, passato di fatto sotto silenzio: forse oggi i tempi sono più maturi per un eccentrico a tutto tondo, più noto in America (dove emigrò, diventando amico di William Carlos Williams) che da noi, autore di prose e poesie che sono autentici lampi al magnesio.
Bernardini si fa araldo di un'attitudine sempre meno praticata, oscurata da una certa cialtroneria accademica sempre più diffusa (soprattutto tra i giovani ANVUR-addicted, spiace annotarlo): "Manca ancora un'edizione critica di tutte le sue opere, che comprenda quelle in inglese e quelle italiane, ma anche le lettere: ma oramai poco s'omaggia quella divinità tremante e gemente, che da qualche parte pur ancor si nasconde, per fuggire l'approssimazione e l'incuria, che si chiama Filologia".
Provocazione a parte, l'esortazione di Bernardini è vitale (fa riflettere che arrivi così forte e chiara da uno storico modernista e non da un italianista): occorre lavorare sui testi. Spazio anche a Giovanni Comisso (a cui, di rimando dotto in rimando dotto, si aggancia anche una chicca come L'uomo galleggiante di Oronzio De Bernardi) e Giuseppe Berto (qui in veste di scrittore sulla vanità e il Canaletto). Golosi ripescaggi sono quelli del poeta genovese Renato Bianchi ("Fu per un'impazzita filologia / che mi trovai a pensare che hapax / volesse dire senza pace / e per questo il mio amore fu tale") e di Steno Tedeschi, cugino di Svevo, singolare figura mitteleuropea, tutta da indagare tant'è che scherzosamente, ma fino a un certo punto, si parla di "coscienza di Steno"...
Giunti alla fine, tra i vari sabbatici invocati
(un anno senza novità editoriali, un anno senza film hollywoodiani ecc.), aggiungiamo questo: un anno in cui a leggere i romanzi e studiare la letteratura siano gli storici, non i letterati. Se ne vedrebbero delle belle.