La guerra democratica

Prima dell'incontro con Israele, Spalletti ha parlato di connessione tra guerra e democrazia: perché è un concetto da non sottovalutare e che si rischia di perdere

La guerra democratica
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Il calcio in Italia, non certo da ora, è il più potente veicolo di trasmissione della cultura popolare. I sociologi la chiamano «cultura bassa» per distinguerla da quella espressa da intellettuali e classi dirigenti. Ieri la nazionale italiana ha giocato contro Israele. Alla vigilia dell'incontro il commissario tecnico Spalletti ha rilasciato alcune dichiarazioni sulla attuale situazione in Medio Oriente: «penso che ci siano molti israeliani che non vogliono la guerra ha dichiarato - e noi dobbiamo convincere sempre qualcuno in più ()». L'affermazione ha suscitato qualche polemica. A noi, però, non interessa se Spalletti nel merito abbia ragione o torto. Quel che conta è che, implicitamente, ha attestato che in Israele vige una connessione tra guerra e democrazia. Non avrebbe potuto svolgere lo stesso ragionamento - giusto o sbagliato che esso sia - se l'Italia avesse incontrato l'Iran o la Russia.

A livello di cultura diffusa la compatibilità tra guerra e democrazia è un'acquisizione che data solo dallo scorso secolo. Prima non era affatto scontata. Quando scoppiò la Grande Guerra, si ritenne che l'esistenza di procedure democratiche e Parlamenti costituisse un aggravio per i Paesi che si trovavano a combattere Imperi autocratici. Questi ultimi si riteneva - assai più velocemente potevano decidere e operare. Gli esiti del conflitto smentirono la previsione. La guerra si era complicata, divenendo guerra totale e avere più livelli decisionali, alla lunga, si rivelò un vantaggio. Charles De Gaulle, al tempo non ancora Generale, scrisse allora un aureo libretto nel quale, da militare, spiegò le ragioni della sua conversione alla democrazia. Dopo vent'anni, gli esiti del Secondo conflitto giunsero a rafforzare quel nesso. I totalitarismi persero anche perché i dittatori compirono scelte senza alcun contraddittorio, che in democrazia, probabilmente, sarebbero state evitate.

Questo è il punto. Il fatto che la democrazia rappresenti un vantaggio anche nella conduzione della guerra, è una nozione che si rischia di perdere. Per due ragioni essenziali. La prima è che la polarizzazione estrema dei conflitti interni porta a smarrire la condivisione di un comune interesse nazionale, della quale una sana democrazia non può fare a meno. Se il conflitto si esaspera oltre un certo livello, l'eventuale cambio di maggioranza si configura non già come una variazione sul tema di fondo, ma come una cesura in grado di offrire al nemico un inevitabile vantaggio. Tale dinamica solo in apparenza contrasta con la seconda ragione, che ha motivazioni ancora più profonde. In guerra, il richiamo alla democrazia ha fin qui avuto un significato ideale e valoriale. Alcuni lo hanno interpretato riferendosi ai diritti naturali negati; altri sottolineando il significato patriottico insito nei patti sui quali la democrazia si fonda. Il dissidio non è di poco momento. Il nesso tra democrazia e valori, però, non è stato messo in dubbio né da una parte né dall'altra.

Oggi stiamo assistendo, invece, ad un processo di progressiva svalorizzazione della democrazia. È il fenomeno sul quale, da ultimo, ha riflettuto Olivier Roy evidenziando come tale dinamica stia conducendo a una perdita di senso, a un trionfo della norma astratta e, infine, a un appiattimento nella percezione del mondo. Se così fosse, nell'approccio alla guerra le democrazie perderebbero il vantaggio che la cultura e i valori hanno fin qui offerto loro.

E, inevitabilmente, la semplificazione autoritaria diverrebbe un'ipotesi sempre più allettante. Anche per questo, è urgente ricomporre il legame tra democrazia e valori. E ben venga che una partita di calcio giunga a ricordarcelo.

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