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"The italian Job": il miracolo del Piacenza senza stranieri

Per otto anni di fila il club si affida ad una scelta autarchica: sempre dati per spacciati, sempre sopravvissuti

"The italian Job": il miracolo del Piacenza senza stranieri

Scorrono la lista dei papabili, ma scuotono subito mestamente il capo. Quando il rintocco della nuova stagione già vibra in vicinanza, loro sono ancora alle prese con un mercato inceppato. L’euforia per una stagione trionfale, culminata con la promozione in Serie A, pare già dilapidata. Il 1993 potrebbe recare sventure multiple. Leonardo Garilli si inumidisce pollice e indice, poi emette la sua sentenza: "Direi di fare con quelli che abbiamo". Gigi Cagni, seduto dall’altro lato della scrivania, quasi viene colto da un colpo apoplettico. Affrontare il campionato più intricato al mondo in quelle condizioni? Servirebbe un miracolo.

Il Piacenza è salito su specie per gli abbondanti squilli del suo bomber Totò De Vitis. La società lo conferma e, visti i prezzi debordanti dei calciatori stranieri, vira su due giovani italiani: Massimo Taibi tra i pali, Marco Ferrante in avanti. Tutto qua. Piazza che mugugna. Garilli che tenta di gettare acqua sullo scetticismo strepitante: "Niente fumo negli occhi, abbiamo deciso di puntare sul gruppo che ci ha portato alla promozione". Lapidario e tutt’altro che persuasivo.

A ribaltare un destino apparentemente avverso ci pensa Cagni. Schiera un 4-3-3 di sostanza e acume: quando i suoi non hanno la palla il centrocampo diventa a cinque. Spazi intasati che nemmeno alle sei della sera sul grande raccordo anulare. Maccoppi, Polonia, Lucci e Cannarante sono quel che passa il convento là dietro. Nel mezzo spiccano Suppa e Moretti. Davanti Ferrante scalza in fretta De Vitis, che si dissolve col salto di categoria. Fa coppia con Piovani.

Sulla scelta autarchica del club si addensano da subito nubi cineree. La squadra imbarca acqua contro il Torino e la Samp. Im molti pregustano una lenta mattanza. Poi alla terza c’è il Milan. Figurarsi. Invece agli allibratori sanguinano i polpastrelli: 0 a 0, contro ogni logica. Un risultato che diventa portatore sano d’autostima. La stagione però è un intruglio di arrampicate e declivi scoscesi. Cagni si toglie qualche vezzo in Coppa Italia. Si rimette in careggiata in campionato, ma poi perde aderenza. All’ultima giornata si consuma una beffa lacerante: il Milan, già campione d’Italia, si imbottisce di riserve e perde contro la Reggiana. Clangore metallico. L’utilitaria tutta italiana sbatte e sprofonda di nuovo in B, per la gioia dei menagrami professionisti.

Non è un affitto lungo. Un giovane predatore d’area guida i lupi verso una pronta risalita: si chiama Filippo Inzaghi e di gol in campionato ne fa 15. Motivo per cui diventa immediatamente sacrificabile alle porte del nuovo valzer. Se lo aggiudica il Parma, pagandolo quasi 6 miliardi di lire. L’assalto alla diligenza prosegue con le cessioni del senatori De Vitis, Iacobelli, Suppa e Papais. Per evitare di assomigliare a un calesse, Garilli reinveste prontamente: dentro sette nuovi calciatori, tutti rigorosamente italiani. Spiccano, nel debordante mucchio di connazionali, gli attaccanti Nicola Caccia e Massimiliano Cappellini. A centrocampo Corini e Di Francesco promettono di sprimacciare i piani avversari, alzando il livello della contesa. Agitando bene prima dell’uso, ne esce una stagione effervescente: Caccia ne fa quattordici, mentre quelli intorno rinsaldano, avvitando i bulloni. È la prima, storica, salvezza in Serie A.

Luiso

L’incipit del nuovo corso è scandito da due notizie folgoranti. Cagni molla il timone a Bortolo Mutti, mentre la legge Bosman sgretola definitivamente le frontiere pallonare. La società prende nota, ma fa comunque spallucce. Avanti senza indugio con gli italiani. Ci fossero stati i social, l’Athletic Bilbao (ancor più rigidamente identitario) ci avrebbe di sicuro fatto un reel. Certo, la cessione di Caccia al Napoli getta nello sconforto più dilagante, ma al suo posto arriva un giovane centravanti di provincia. Si chiama Pasquale Luiso, danza la Macarena quando esulta e l’hanno soprannominato “Il toro di Sora”. A fine stagione ne farà 14, esattamente come il suo predecessore. In mezzo al campo, invece, la partenza di Corini viene alleviata da Giuseppe Scienza, un altro direttore d’orchestra. La scomparsa del presidente Garilli, colpito da un infarto il 30 dicembre, atterrisce l’ambiente. Al suo posto subentra il figlio. La salvezza, quell’anno, è questione che si dirime all’ultimo: convulso spareggio in campo neutro (Napoli) contro il Cagliari di Mazzone, 3 a 1 con doppietta di Luiso e lupi ancora aggrappati al vagone di prima classe.

Seguiranno anni di assestamento, conditi dagli arrivi di gente come Stroppa, Rastelli e Vierchowod, oltre alla promozione in prima squadra di Simone Inzaghi (futuro miglior marcatore in A della squadra) e Alessandro Lucarelli. Ci saranno ancora, prima del tramonto di questa missione italiana, una retrocessione e una riemersione, grazie al provvidenziale ritorno del figliol prodigo Caccia.

Inzaghi

Nel 2001 il Piacenza cede alle lusinghe straniere, acquistando Matuzalem e Amauri. È la fine del miracolo autarchico di un coraggioso club di provincia. Un esperimento senz’altro estremo, eppure azzeccatissimo.

A guardarlo con le pupille di oggi, appannate dalla indecorosa pletora di giovani connazionali marcenti in panchina o nelle serie minori, viene quasi una botta di nostalgia.

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