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Il calvario di Uòlter: 16 mesi di errori e ko

RomaIniziò tutto a sorpresa, con una dichiarazione rilasciata, in un clima di entusiasmo corale, a un conferenza stampa sugli asili nido in Campidoglio: «Ci sto pensando». Walter Veltroni faceva sapere così, acclamato da un’intera coalizione come un salvatore, che lui era pronto a correre per le elezioni primarie.
Aveva parlato con il suo fratello-coltello Massimo D’Alema, il giorno prima e aveva ottenuto un via libera, frutto della necessità, più che del consenso. E già quello, a ben vedere doveva essere un vizio di origine, se è vero che a La Repubblica, solo 48 ore prima il líder maximo aveva detto: «Veltroni leader? Non finché io sono in vita». Meravigliosa sentenza (rimangiata). Invece accadeva, con lui «in vita», perché le traiettorie di Veltroni e dei suoi rivali erano divergenti: mai la popolarità del sindaco di Roma era stata più alta, mai lo stato di prostrazione di tutti gli altri leader era stato così profondo.
Veltroni in quei giorni era molte cose insieme: l’ottavo Re di una Roma che pareva diventata l’ombelico del mondo, l’uomo dei festival e delle Notti bianche, uno degli autori più venduti in libreria, a tempo perso disc jockey, cinefilo, doppiatore di cartoni animati per la Disney, riempitore di teatri nel nome della bella politica, prefatore dei saggi di Obama... Mentre i suoi rivali politici erano ai minimi termini. Prodi sfigurato dalle defatiganti battaglie parlamentari al Senato, Fassino e D’Alema appesi alle loro intercettazioni Unipol, Francesco Rutelli chiuso nel suo minoritarismo neocatecumenale, non spendibile a sinistra.
Il nuovo leader si presentò al Lingotto (27 giugno 2007), con una nuova immagine e un discorso che era tutto un’ansia di riforme e di tempi nuovi. Già il primo passo però fu patteggiato: niente donne, l’ex popolare Dario Franceschini diventava vice. Una scelta obbligata? Forse. Subito dopo ci fu il bagno battesimale delle primarie, senza veri rivali, l’ultimo plebiscito di unanimità. Fu Veltroni, però ad accelerare - volontariamente o no, ancora non è chiaro - i tempi della crisi di Prodi, dopo pochi mesi di coabitazione. Si presentò a Orvieto, a dire che il Pd aveva una vocazione maggioritaria, e che avrebbe corso da solo. Ma perché mai, allora, gli alleati del centrosinistra avrebbero dovuto sostenerlo? Mistero. Lo stesso concetto venne ripetuto nella prima riunione della Costituente di Milano, nel catino verde farmacia di Assago. Il Pd si stava dando rapidamente un nuovo gruppo dirigente, un nuovo simbolo, un nuovo nume tutelare, Goffredo Bettini. Ma già la corsa per eleggere i duemila costituenti, con quattro liste, più che un’epifania del nuovo, era sembrata uno scomposto mercato delle vacche. Lo strappo di Mastella e la fine di Prodi gettarono quell’embrione di partito in una trincea. Veltroni aprì la campagna elettorale a Spello, in un discorso in cui non c’era nemmeno un lemma della vecchia lingua politica diessina, almeno nella forma. Sullo sfondo c’erano dei paesaggi italiani da almanacchi del giorno dopo, il rosso era bandito, la parola d’ordine «sfondare al centro». Mentre Bettini e Franceschini impasticciavano le candidature, Walter si affidò a un ex ambientalista, Ermete Realacci, per mettere su un nuovo pullman elettorale. La colonna sonora era jovanottesca («Mi fido di te») in ogni città faceva un comizio e andava a pranzo con una «famiglia normale». Obiettivo: toccare tutte le province italiane. Ma la possibilità di sfondamento naufragava sulla scelta di Berlusconi di espellere l’Udc dal centrodestra. Se c’erano degli scontenti del Cavaliere, adesso potevano votare Casini.
All’inizio Veltroni ci credeva ancora: anticipò di una settimana l’annuncio delle liste rispetto ai tempi burocratici per dare un segnale di diversità. Fu un disastro: i nomi dei capilista, con l’eccezione del superstite della Thyssen, Boccuzzi, furono un fiasco. Una precaria siciliana destinata a fare la capolista si rivelò non essere precaria, e non arrivò sulle schede elettorali. Una sindacalista risultò raccomandata dalla madre. Dell’imprenditore Calearo si scoprì che aveva il jingle di Forza Italia sul telefonino, della giovane candidata siciliana che era figlia dell’ex ministro Cardinale. Intorno a questi nomi-simbolo, tutto un proliferare di portaborse, segretarie di notabili, persino dei portavoce. Il volto simbolo del Lazio, Marianna Madia, dopo aver proclamato di voler mettere al servizio del Pd la sua «inesperienza», costretta al silenzio. Anche lei non era un’economista precaria, ma una discepola di Gianni Minoli e di Enrico Letta.
Le elezioni furono un mezzo disastro. La percentuale più bassa dopo il 1948. Però non c’erano ricambi, e l’unanimismo prevalse. Veltroni disse che il 34% era un risultato importante, Parisi gli rispose con una battuta meravigliosa: «Se uno prende il 33 e 1, non può sommare le frazioni». Dopo 15 giorni arrivò il colpo di grazia, la vittoria di Alemanno in Campidoglio.
In estate iniziarono ad accaderne di tutti i colori: Ottaviano Del Turco, fondatore del Pd finiva in manette; i potentati locali insorgono contro i governatori in Sardegna e Piemonte; il Pd si asteneva sul conflitto di attribuzione sul caso Englaro scontentando i laici e cedendo ai diktat dei teodem; D’Alema annunciò una sua corrente Red, e iniziò a fare la fronda (e le tessere). Poi lo scontro si spostò sul satellite, con due televisioni del Pd (una dalemiana e una veltroniana!) mentre i due leader negavano ogni contrasto. Il 25 ottobre Veltroni fu costretto a convocare una manifestazione di protesta, a dire che Berlusconi era come Putin, a strambare sulla linea Di Pietro, a rompere l’alleanza con lui, ma poi ad accettare un suo candidato in Abruzzo. Malgrado questo si perde, con il partito ai minimi termini e l’ex pm che raddoppia i voti. A Napoli sei assessori finiscono in manette, senza che Veltroni riesca a far dimettere né Bassolino né la Iervolino. Il sindaco suscita scandalo registrando le conversazioni con i messi di Veltroni e minacciando di pubblicarle.
Il caso Eluana è stato l’ultimo detonatore. Il Pd arriva con quattro posizioni in Aula, frammentato, diviso, debole. Leader di prestigio come Rutelli votano con il governo, ancora una volta non c’è alcuna disciplina. In Sardegna, Soru frana. Il partito perde 12 punti. La direttrice dell’Unità scrive che il partito è in preda a lotte fratricide. Che gli elettori sono nauseati. Un sondaggio di La Repubblica online dice che l’80 per cento vuole le dimissioni del leader. Walter apre i lavori del coordinamento con un annuncio-choc: «Mi dimetto».

Chissà se «Celestino» stavolta va in Africa, come gli consigliava De Gregori.

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