Di Caprio e Scorsese stavolta puntano all’Oscar col terrore

RomaRendono un gradito omaggio all’Italia Martin Scorsese e Leonardo Di Caprio, presentando in anteprima assoluta il loro thriller gotico Shutter Island (uscirà il 5 marzo, distribuito da Medusa), pronto a sbarcare, sabato, al Festival di Berlino fuori concorso.
Perfettamente rodati, al quarto film insieme (dopo Gangs of New York, The Aviator e The Departed, che ha incassato 300 milioni di dollari al box office), il maestro di Taxi driver e il suo nuovo De Niro formano un solido rullo compressore, buono a spianare la strada agli Oscar, ai soldi, all’affetto d’un pubblico difficile da deludere. E se questo drammatico racconto, tratto dall’Isola della paura, romanzo di Dennis Lehane, fonte d’ispirazione popolare (Sean Penn ha vinto l’Oscar con il suo Mystic river), mostra l’alleanza morale tra legge e cure mediche, l’imbattibile duo rimanda a una specie di matrioska. Apri Scorsese, 32 anni più di Leo e i soliti occhialoni da vista, con montatura nera, che gli danno l’aria del pensionato scaltro, e trovi Di Caprio, degno allievo di tanto regista. «Avevo 15 anni e i miei eroi si chiamavo De Niro, Montgomery Clift, James Dean, ma dentro mi resta ancora una sete, mai placata, di realizzare qualcosa di positivo. I miei personaggi tragici, osceni o dark mi toccano profondamente», dice Di Caprio, californiano d’origine olandese, che in comune con il suo mentore regista ha una passione musicale per Django Reinhardt. E convince come federale inviato tra gli incurabili, in un ospedale-penitenziario a picco sulle rocce della costa bostoniana, dove, a un certo punto, lui pure, vedovo traumatizzato dall’aver aperto i cancelli di Dachau, comincerà a sentire le voci.
Il fatto è che, nei Cinquanta, gli Usa vivevano uno scisma tra due scuole di psichiatria: una medicalizzava il disturbo psichico con elettrochoc e lobotomia, l’altra (qui incarnata da Ben Kingsley) recuperava i matti con mezzi meno devastanti. «Martin è un grande: ti fa sentire proprietario del tuo personaggio», racconta Leo. Ma come ha fatto Scorsese a tessere la sua trama, che mescola horror, studio caratteriale e suspence, sospendendo uomini e ombre tra Kafka e il Gabinetto del dottor Caligari di Murnau? «Paura, fobia, paranoia fanno parte della mia vita. Ma con la paura ci convivo. Sono cresciuto a New York, il mio è un lavoro difficile: il potere mi desta sempre dubbi. Tra i Quaranta e i Cinquanta, registi emigrati, tedeschi e austriaci come Billy Wilder e Otto Preminger, hanno sfornato molti noir, negli Usa. Al cast ho fatto vedere Laura di Preminger e Le catene della colpa di Jacques Tourneur.

Nei film tedeschi del periodo muto, tra Lang e Murnau, c’è mistero. Ho un debito diretto, e tanto amore, nei confronti del cinema tedesco, italiano e inglese: tutto ciò fa parte della mia vita», spiega Scorsese, il regista più lodato della sua generazione. Anche senza blockbuster.

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