Caro ministro: senza pranzo non c’è lavoro

Il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, crede di aver intuito perché il programma non si attua abbastanza: gli italiani hanno il vizio diabolico della pausa pranzo. «Non mi è mai piaciuta questa ritualità che blocca tutta l'Italia. Le ore più produttive sono proprio quelle. La pausa pranzo è un danno per il lavoro, ma anche per l’armonia della giornata: sarebbe meglio distribuirla in modo diverso, come avviene negli altri Paesi».
Niente da dire: opinione rispettabilissima. Vorrei però anch’io esercitare diritto di opinione, con una semplice domanda: ministro, ha voglia di scherzare? Premetto doverosamente, per sgombrare il campo da sospetti e insinuazioni, che peso 55 chili e non sono un ingordo magnone. Come Socrate (e scusate se è poco) sono di quelli che mangiano per vivere, non di quelli che vivono per mangiare. Dunque, evitiamo subito di tacciare il mio partito (Ppp, partito pausa pranzo) con i soliti luoghi comuni sugli italiani oziosi e trimalcioni, che si alzerebbero da tavola alle cinque del pomeriggio per risedersi alle sei. Siamo tutti d'accordo: per certa gente bisognerebbe parlare di pausa lavoro, nel mezzo di una giornata zeppa di tutt’altre piacevolezze personali. Ma non è di queste degenerazioni che si parla, ovviamente. Su queste c’è l’unanimità: andrebbero annientate con il lanciafiamme.
Rotondi parla della pausa pranzo in senso classico, diciamo più o meno di quell’oretta e mezzo che separa la mattinata dal pomeriggio. La considera un rito tribale, di chiaro stampo italiota. Qualcosa che ci frena e ci tiene indietro rispetto agli altri Paesi evoluti. Chiedo subito: ministro, ma li ha visti come sono felici in questi mitizzati «altri Paesi»? Si guardi in giro. Mediamente, scendono dal letto e si schiaffano nello stomaco un carico di uova fritte e pancetta, formaggi vari e insaccati grassi, con un apporto calorico che nemmeno Messner nelle sue sfide più epiche, a quaranta sotto zero, riusciva ad immaginare. La chiamano colazione robusta. Poi fanno quelli che saltano il pranzo. Ma va? Lo dico sinceramente: con le colazioni di tedeschi e olandesi, belgi e francesi, americani e giapponesi, io non salterei soltanto la pausa pranzo, ma salterei il pasto per settimane intere, opportunamente ricoverato nel più vicino reparto di terapia intensiva.
Diciamoci la verità: ogni popolo ha una sua atavica armonia. E non mi sembra che la nostra sia poi così disprezzabile. Casualmente, siamo un popolo longevo, tendenzialmente sano, con i minori problemi di colesterolo e trigliceridi. Belle o brutte che siano queste abitudini, ci rendono comunque invidiabili. Non a caso, quando gli stranieri vengono da noi restano incantati. Dal nostro stile di vita. Dal nostro benessere. Dal nostro buonumore. Caso mai, è proprio là dove ci stiamo imbastardendo, nelle grandi realtà metropolitane, ormai esterofile e mondializzate, con la sublimazione del panino in piedi (tempo record quattro minuti e trenta), è proprio lì che cominciamo a presentarci meno allegri, più schizzati, tendenzialmente più infelici.
Dicono i Rotondi: ci mangiamo proprio l'orario di massima produttività. Io non so dove abbia scoperto questa perversa connessione (massima efficienza proprio nell'ora della pausa pranzo), ma sinceramente mi importa poco. Mi bastano le consulenze gratuite di tanti scienziati sportivi che ho conosciuto negli anni, tutti concordi nel sostenere una cosa sola: il pranzo non va mai saltato. Il nostro fisico è un motore che consuma benzina, né più, né meno: troppa benzina lo ingolfa, senza benzina s’inchioda. Dunque, da un punto di vista puramente medico, non ci piove: mangiare seduti, senza esagerare, magari con un minimo di calma, meglio ancora con persone amiche, è un toccasana. Lo dico per tranquillizzare Rotondi e i fanatici del rotondismo: una intelligente pausa pranzo mantiene la nostra macchina in perfetta efficienza. Ministro, ha presente il pit-stop di Monza? Uguale. Si torna in pista più lanciati e più veloci di prima.
Questo sotto il profilo puramente pratico. Ma poi c’è qualcosa che va ancora oltre, ben al di là della semplice questione fisica. C’è un aspetto che tutto supera e tutto oscura: il beneficio intimo e spirituale. Chi può torna a casa e rivede la famiglia, magari confrontandosi anche sulle rispettive grane giornaliere. Chi deve restare fuori può comunque fare quattro chiacchiere con i colleghi, magari evitando opportunamente di parlare proprio del lavoro. Non è un rito tribale e superato: si chiama stare bene al mondo, in pace con se stessi. L’hanno capito anche quasi tutti i padroni: un lavoratore sereno rende molto di più di un lavoratore stressato. Guai a noi dunque se cadiamo nell’agguato. I pasdaran dell'efficientismo 24 ore su 24 hanno un chiaro disegno: vogliono ridurci come giapponesi (senza offesa). Iperattivi, monotematici, efficientissimi: però che nessuno si sogni di alzare la testa per guardare fuori dalla finestra, o per mangiarsi un piatto di tortellini in santa pace.

A questi talebani dell’orario continuato vada il nostro no più fermo e risentito. Vogliamo restare uomini, non alienati. E per questa fregola dell’efficienza abbiamo un’idea tutta nostra: basta dimostrarla fuori dalla pausa pranzo. C'è tutto il tempo.

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