La campagna per il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno è cominciata nel peggiore dei modi. È cominciata, qualche settimana fa, con le dichiarazioni di Romano Prodi che trasformavano la ricorrenza del 25 aprile in occasione per propagandare il no alla riforma costituzionale. Come se la guerra civile che oppose gli italiani nei tragici anni tra il 1943 e il 1945 avesse la medesima qualità del confronto referendario del prossimo 25 e 26 giugno. E come se quella guerra si potesse comparare al voto su una revisione costituzionale, proposta in piena legalità e legittimità sulla base di ciò che prevedono le procedure costituzionali.
Quella di impostare una campagna referendaria per «fare resistenza» alla revisione costituzionale, evocando scenari da ultima battaglia, è un'idea condivisa dai vari comitati per la difesa della Costituzione, ma è un'idea sciagurata, per almeno due motivi.
Primo, perché impedisce un confronto sereno e pragmatico, in cui argomenti e contro-argomenti possano confrontarsi sul merito delle soluzioni reali che il progetto di riforma contiene. Perché prefigura una campagna referendaria giocata su parole d'ordine liquidatorie e falsificanti che accenderanno gli animi ma obnubileranno le menti (una riforma «che spezza l'unità del Paese», che attribuisce «poteri dittatoriali» al Primo Ministro, che «umilia» il Parlamento).
Secondo, perché a seguito della radicalizzazione del confronto, l'eventuale prevalenza dei «no» nel referendum equivarrebbe alla vittoria del più radicale conservatorismo costituzionale.
Conservatorismo che finirebbe per negare l'esistenza di alcuni ben noti problemi che affliggono le nostre istituzioni, e che non derivano solo dalla prassi o dal sistema politico, ma proprio dalle regole costituzionali in vigore. Per elencarne solo alcuni: un bicameralismo perfetto assurdo e inutile, fonte non solo di duplicazioni e lentezze nella procedura di approvazione delle leggi, ma che attribuisce a due Camere il potere di dare la fiducia al Governo; un Presidente del Consiglio dai poteri deboli e malcerti, che fatica a tenere insieme le maggioranze di coalizione che dovrebbero sostenerlo; un sistema confuso di rapporti tra Stato e Regioni, e fra leggi statali e regionali, che (soprattutto dopo la sciagurata riforma ulivista del 2001) produce incertezza nei cittadini e nelle imprese; un insieme di regole in tema di giudici e giustizia più adatto a un mondo ottocentesco che a una società nella quale la magistratura e il diritto di origine giurisprudenziale hanno assunto un ruolo di enorme rilievo.
Vi è per la verità qualche timido segnale positivo, proveniente dai settori più intelligenti della sinistra riformista, i quali invitano a non caricare il «no» dell'accennato significato conservatore, e sottolineano che anche dopo l'eventuale vittoria del «no» tutti i problemi irrisolti del nostro sistema istituzionale resterebbero sul tappeto come questioni urgenti, e richiederebbero uno sforzo riformatore il più possibile condiviso. Qualche traccia di ciò è contenuta anche nel primo discorso del Capo dello Stato.
Ma questi distinguo intelligenti sono destinati a perdersi nel fragore del radicalismo, e probabilmente si deve prendere atto che alla fine il messaggio politico è questo: se vince il «no», la Costituzione «nata dalla Resistenza» non si toccherà più per molto tempo, perché qualunque revisione seria apparirà politicamente impraticabile.
La revisione costituzionale aveva di fronte a sé una serie di grandi obiettivi di fondo e probabilmente non li raggiunge tutti. Essa anzi contiene incoerenze e difetti anche seri, che dovrebbero essere corretti, ed anzi il centrodestra dovrebbe riconoscerlo con chiarezza, come suggeriva Sergio Romano qualche giorno fa, e indicare già possibili rimedi.
Nelle condizioni date, si potrebbe dire che è meglio di niente, soprattutto se si pensa che l'alternativa è il conservatorismo costituzionale di Oscar Luigi Scalfaro...
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.