Solo un romano come lui, come Franco Sensi, romanissimo nel cuore e nel sangue, nato a porta Cavalleggeri, le radici a Visso, sito dell'Umbria antica, avrebbe potuto amare Roma e la sua squadra di calcio simbolo, la Roma, come è riuscito a quel piccolo, combattivo e coraggioso centurione spuntato allimprovviso nella storia del calcio italiano. Il legame con la città era garantito, una specie di marchio di fabbrica, dal temperamento: persona semplice e schietta, sanguigno e «caciarone», cedeva agli slanci di generosità e agli scatti dira con pari facilità. Il cordone ombelicale con la Roma fu il tratto distintivo di una intera famiglia, religiosamente sigillato nel ricordo di papà Silvio, uno dei fondatori del club giallorosso. Per 15 anni, dai giorni cupi del 1993 in cui evitò il crac di Ciarrapico, Franco Sensi è stato, per tutti, la Roma finendo con l'oscurare persino l'era di Dino Viola, uno dei suoi predecessori più celebrati. Le diverse stagioni, quelle premiate dai trionfi (cinque in tutto, uno scudetto targato 2001, due coppa Italia e due supercoppa d'Italia) e quelle più sgangherate, ne hanno scandito gli umori e le battaglie senza mai far disperdere l'identità assicurata dalla devozione dei tifosi giallorossi e valorizzata dall'inimicizia dei club del nord.
Per garantire alla sua Roma un palmares da grande società, degno di Inter, Juve e Milan, fu pronto a sacrificare gran parte del patrimonio personale: un giornale (il Corriere dell'Adriatico) e un albergo (hotel Cicerone) venduti, servirono a sovvenzionare la clamorosa campagna acquisti del 2000 (gli acquisti di Batistuta, Emerson e Samuel), passaggio decisivo, unitamente all'arrivo di Fabio Capello sulla panchina, per la conquista del tricolore. Di lì a qualche giorno, la festa organizzata al circo Massimo, con un milione di romanisti pazzi di felicità e Sabrina Ferilli in bikini, fu il punto più alto della sua popolarità. Realizzò una squadra pronta a vincere molto altro, anche in Europa: fu respinto a volte da qualche ostile fischio arbitrale nel torneo domestico, a volte dalla fragilità dell'ambiente. Negli ultimi anni Real Madrid (Samuel, Emerson Cassano) e Inter (Chivu, Mancini) l'hanno spolpata senza riuscire a ridimensionarla. Ha difeso e conservato il talento del giocatore chiave, Francesco Totti, eletto a «suo unico figlio maschio»: forse è stato il suo capolavoro da presidente della Roma.
Per sedersi nel salotto buono del calcio italiano, decise di portare la guerra in casa dei rivali del nord. Lo fece utilizzando l'arma giusta, la tv, ma ottenendo risultati opposti: invece di ridurre la concorrenza in braghe di tela, finì con l'arricchirla grazie alla legge (governo D'Alema) sui diritti trasformati da collettivi in individuali. Coagulò attorno alla Roma e alla sua persona un piccolo fronte, provò a portare Moratti e l'Inter dalla sua parte senza mai riuscirvi: fu una delle tante sconfitte politiche rimediate con quegli scarti di umore notissimi. Un giorno dalla tribuna dell'Olimpico tuonò contro «l'associazione a delinquere del calcio italiano»: nel mirino Juve e Milan, il tandem del potere calcistico. Dilapidò anche molte risorse nella vana costruzione di un polo romanocentrico: divenne azionista di Foggia, Palermo e Nizza senza cavare dalla sinergia utili risultati. Costrinse Carraro e Giraudo a trattare con lui sul designatore arbitrale, sfiorò l'elezione a presidente della Lega (estate del 2002) in lotta con Adriano Galliani. Si ritirò accusando i primi sintomi della malattia che l'ha consumato giorno dopo giorno senza togliergli il bene prezioso della Roma.
Ha assistito all'eclissi di Luciano Moggi e allo scoppio di «moggiopoli»: devessere stata, in questi mesi durante i quali l'abbiamo accompagnato con gli occhi mentre si sedeva muto in tribuna, al fianco della signora Maria, la sua più grande soddisfazione.
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