
Nel 2008 la Cina si apriva al mondo con una cerimonia olimpica spettacolare. Ma quello che per molti era solo un evento sportivo, per Pechino fu una dichiarazione di intenti: non solo era pronta ad aprirsi al commercio globale, ma anche a dettare le regole del gioco. Dietro il sipario olimpico, si muoveva infatti una strategia molto più profonda: la cosiddetta "marcia verso l'Ovest", ovvero l'inizio di un'espansione economica, infrastrutturale e geopolitica che avrebbe avuto effetti ben oltre i confini della Repubblica Popolare. Nelle intenzioni dell'allora "leader supremo" Hu Jintao - di lì a poco gli sarebbe succeduto Xi Jinping, ma già si intuiva la sua influenza - la marcia non era solo geografica, rivolta verso le province occidentali interne come Xinjiang, ma anche strategica, con obiettivo i mercati e le risorse dell'Asia Centrale, del Medio Oriente e oltre. Naturalmente Pechino trasse grande vantaggio dal drammatico crollo della fiducia occidentale nel proprio modello: la crisi finanziaria del 2008, con il fallimento di Lehman Brothers, rappresentò uno spartiacque che a Pechino fornì nuovo propellente per i suoi piani. Per avere idea dello spaccato economico entro il quale si muoveva, basti ricordare che nel 2009 il Pil degli Stati Uniti si contrasse del 2,4% e l'Unione Europea entrò in recessione; per contro, la Cina si muoveva con un ritmo impressionante: +9,6% nel 2008 e +9,4% nel 2009. Sicché, mentre l'Occidente bruciava miliardi di dollari nei salvataggi bancari, Pechino lanciava un piano di stimolo interno da 586 miliardi.
Soprattutto accelerava un progetto ambizioso: trasformare le sue province occidentali da aree marginali in nodi strategici del nuovo secolo. Nel 2013, quella visione prese forma compiuta con la Belt and Road Initiative, ma le radici affondano proprio in quel cruciale 2008. Pechino comprese che l'instabilità dell'Occidente offriva una finestra temporale preziosa per rafforzare la propria proiezione esterna. Sicché mentre le democrazie erano paralizzate da crisi interne, la Cina negoziava, costruiva e investiva. Entro il 2010, era diventata la seconda economia mondiale, superando il Giappone.
Ma c'erano anche motivazioni interne. La leadership cinese sapeva che il suo modello di crescita basato sull'export doveva cambiare. Lo sbilanciamento tra la Cina costiera e l'interno era esplosivo: il Pil pro capite nello Zhejiang era 4-5 volte quello del Gansu o del Tibet. Investire nell'Ovest significava creare un secondo motore di crescita, sviluppare infrastrutture, sedare tensioni etniche e, nel lungo periodo, garantire stabilità interna. A questo si aggiungeva una necessità energetica crescente: con il 70% del petrolio importato da rotte marittime vulnerabili, Pechino aveva bisogno di diversificare. Così nacquero gli oleodotti con la Russia e il Kazakistan, e le ferrovie verso l'Europa, tutte passando per l'Ovest cinese.
Insomma, la Cina sfruttò un perfetto allineamento di eventi: il palcoscenico olimpico per legittimarsi agli occhi del mondo, la crisi finanziaria occidentale per guadagnare terreno strategico, e la propria transizione interna come leva per ridisegnare le
sue priorità. Non si è trattato solo di aprire i mercati asiatici, ma di riscrivere le coordinate dell'integrazione eurasiatica, con Pechino al centro.L'Olimpiade fu solo l'inizio. Da allora, la marcia non si è mai fermata.