Ma che piacevole imbarazzo riascoltare la voce stonata di quel cantastorie di Arpino

A rendere per molti impresentabile dal punto di vista del pedigree intellettuale Giovanni Arpino, curioso esempio di scrittore conosciuto più per i debiti cinematografici che per i crediti letterari, basterebbe citare due elementi bio-bibliografici culturalmente eterodossi e alquanto incresciosi. Il fatto che dal 1980 fino alla morte, nel dicembre del 1987, il 10, stesso giorno in cui nel 1959 esordì col suo capolavoro La suora giovane, collaborò assiduamente con il Giornale di Indro Montanelli. Del quale fu molto amico e al quale presentò, facendolo scrivere sullo stesso quotidiano, Marco Travaglio quando questi era suo portaborse, anche se oggi a sentire certe versioni sembra che fosse Giovanni Arpino il portaborse di Marco Travaglio... questo per dire la memoria corta di alcuni giornalisti e la poca affidabilità di molti siti Internet. E, secondo, il fatto che dopo la presa di distanza da Einaudi e il litigio con Garzanti le sue opere complete (in cinque volumi curati tra il 1991 e il 1992 da Giorgio Bàrberi Squarotti, Massimo Romano e Bruno Quaranta), siano state pubblicate postume, sotto la direzione di Ferruccio Viviani, da Rusconi, una casa editrice sulla quale ancora gravava, a torto almeno in quel momento, un’aria destrosamente sospetta.
A rendere invece presentabilissimo dal punto di vista puramente narrativo Giovanni Arpino è sufficiente la sola lettura di alcuni suoi racconti, ora ripubblicati nel volume Racconti di vent’anni (Lindau, pagg. 670, euro 29; da domani in libreria) che comprende la maggior parte delle opere brevi dello scrittore: le “vecchie” storie contenute nei due volumi La babbuina, del 1967, e I 27 racconti, del 1968, più un altro gruppo di 25 storie “nuove”. Un bellissimo libro apparso nel ’74, quasi subito sparito e da allora mai più riedito, e che di fatto manca dal giro editoriale da più o meno 35 anni. Dopo aver ripubblicato sempre per Lindau Le mille e una Italia nel maggio scorso, la vedova dello scrittore, Caterina Brero Arpino, ha voluto ritirare fuori quei racconti “perduti”. Ed ecco ritornare, una sezione dopo l’altra, le «storie fantastiche» (come La pavona e Gatto mammone), le «storie vecchie e nuove» (I rumori del limbo, La moglie infedele, Gli amici del martedì grasso, Whisky a gogò...), le «storie di provincia» (ad esempio Una proposta di matrimonio, Vicino al traforo, Il signor Lorenzo...), le «storie del sabato sera» (tra le tante, Achab uccide, Un whisky per Lolita, Madama Cappuccetto Rosso...) e le «storie di domani» (Bambola per la sposa o L’ultimo angelo). Alcuni sono racconti realistici e altri favole, alcuni assurdi e altri ancora fantastici, certi addirittura sconfinano nel paranormale. Tutti narrano un pezzo della società italiana del tempo e un pezzo della fantasia senza tempo di Arpino.
Tra i sedici romanzi, i quasi duecento racconti, le migliaia di articoli giornalistici, le opere teatrali, le poesie e i libri per ragazzi scritti da Arpino, i Racconti di vent’anni non saranno le pagine in assoluto più alte dell’autore di Pola naturalizzato torinese (e infatti per lo più non compaiono tra le Opere scelte del Meridiano Mondadori del 2005), ma bastano e avanzano per farsi un’idea delle doti e dello stile di un grandissimo «cacciatore di storie», un’anima persa tra la letteratura, che onorò con un premio Strega (nel 1964 con L’ombra delle colline) e un premio Campiello (nel 1972 con Randagio è l’eroe), e il giornalismo, che servì con strepitosi articoli di cronaca, di costume, di cultura e soprattutto di sport, come le corrispondenze, fra il reportage e il racconto, scritte per la Stampa in occasione dei Mondiali di calcio del 1978 in Argentina o per il Giornale dal Mundial di Spagna dell’82.
«Arpino è uno scrittore “imbarazzante” perché “atipico” per l’Italia. Non riesco a trovare nemmeno un nome di scrittore italiano contemporaneo da mettergli vicino», diceva di lui Guido Piovene, altro scrittore atipico compromesso con la stampa di destra. «Un’ora con lui era un bagno d’osservazioni, ricordi, aneddoti, confessioni. Sembrava che ti avesse spiattellato su un tavolo tutto se stesso», raccontava di lui Montanelli. E qualche collega «anziano» del Giornale ancora lo ricorda quando passava dalla redazione, negli anni in cui soggiornava per due-tre giorni la settimana a Milano in un appartamentino in zona Fiera, e chiacchierando di tutto, maxime di calcio, non rinunciava mai alla battuta. «Consideratemi un autore defunto», diceva quando gli citavano qualche sua opera “passata” al cinema o in teatro o alla radio... «Io ho quel che ho fumato», ripeteva spesso a chi gli faceva notare le troppe sigarette. E persino davanti a una terribile gaffe di un’altra celebre firma di via Negri, che non vedendolo da tempo e non sapendo nulla del cancro che lo stava divorando, lo salutò con un incauto «Ma come sei dimagrito!», ebbe il perfido aplomb di rispondere: «Così posso rimettere le giacche che avevo smesso...».


In ogni momento pronto a ridere di qualsiasi cosa, sempre disposto a offrire consigli affilati a tutti, con nella testa più idee di quante riuscisse a metterne sulla carta, Giovanni Arpino fu UN polemista eccezionale e un irresistibile raccontatore. Non venerava maestri, ebbe pochi proseliti, qualche nemico e parecchi lettori. Da oggi, a riascoltare i suoi Racconti di vent’anni, di certo qualcuno in più.

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