Gabriele Villa
nostro inviato a Chernobyl
Il «sarcofago» è sempre più malconcio. L'avevano garantito per diciotto anni e, puntualmente oggi, sta andando a pezzi. Come un'enorme tomba di misteri e veleni, nella città degli spettri e degli scheletri, con il suo tetto sconquassato. Immaginatevi un coperchio sgangherato su un pentolone dentro il quale continua a ribollire un cocktail di veleni. Qualcosa come duecento tonnellate di uranio attivo. Anche se gli ingegneri si affaccendano con apparecchi di rilevamento, misurano la temperatura dell'acqua e sistemano le crepe lungo la superficie di mille metri quadrati. Anche se il presidente Yushcenko, prima del risultato elettorale non proprio esaltante, aveva promesso e sbandierato l'appalto di un nuovo deposito di scorie. Solo che per realizzarlo, oltre ai miliardi, servono cinquemila volontari. Pagati bene, molto bene, il triplo di uno stipendio medio, dovrebbero lavorare a turno quindici giorni al mese. Ma come si fa a fidarsi? Chernobyl fa ancora paura.
Come vent'anni fa. Quando, il 26 aprile del 1986, l'esplosione del reattore numero quattro della centrale nucleare rilasciò nell'atmosfera radioattività pari a 150 milioni di curie, cinquecento volte più del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Quattromila morti (seicento solo fra gli elicotteristi che sorvolarono la zona nelle ore immediatamente successive) per l'Organizzazione mondiale della sanità, mezzo milione, secondo uno studio pubblicato di recente nel Regno Unito. Nel frattempo Chernobyl non ha traslocato, è ancora qui, a 120 chilometri da Kiev, e si raggiunge piuttosto agevolmente in un paio d'ore. Solo che, man mano che ti avvicini, percepisci sulla tua pelle, e non ci riferiamo alle invisibili, inevitabili, radiazioni stagnanti, di entrare in un clima surreale. Documenti , permessi, targhe di auto e nominativi del conducente e dell'equipaggio di ogni veicolo in transito, debbono essere dichiarati per tempo seguendo una procedura burocratica discretamente estenuante che alza il livello di guardia tra la prima e la seconda «zona di rispetto», a trenta chilometri dalla centrale. A meno di venire da queste parti, ecco l'opzione surreale, come semplici turisti. Opzione a costo zero in termini di fatiche burocratiche e abbordabile in termini di spesa: 1.200 hrvine, cioè 200 euro.
Vent'anni dopo, il luogo dell'orrore diventa meta di un turismo che sembra figlio del più sconfortante reality show. E così, nell'irrealtà della realtà di questo clima che ti avvolge, turbandoti profondamente, c'è la semplicità disarmante di una gita turistica organizzata dall'agenzia Artex di Kiev in tandem con l'unico ente che abbia ottenuto il placet del governo ucraino per muoversi all'interno della centrale nucleare, la Chernobyl Interform, di Danil Kiriakov. Telefoni, prenoti, paghi la quota pattuita e hai diritto a viaggiare su piccoli pulmini fino a Chernobyl , a visitare la centrale nucleare, arrivando fino a 300 metri dal sarcofago che contiene i resti ancora minacciosi del tristemente famoso quarto reattore. È compresa una colazione al sacco, con cibo portato da Kiev, e quindi, ufficialmente, non contaminato. E, come ogni gita turistica degna di definirsi tale, sono persino previsti due eventuali extra: un pernottamento in loco, 250 hrvine e, per chi crede che una centrale nucleare sia simile al Gran Canyon visto dall'alto , un giro in elicottero (2.500 hrvine, poco più di 400 euro). «Ti porterai a casa - assicura Kiriakov anche a noi, come fa con ogni cliente prima della partenza - unemozione irripetibile. In effetti - ammette il titolare della Chernobyl Interform - non ci si arricchisce coi turisti di Chernobyl. L'anno scorso abbiamo portato 82 gruppi il che significa un fatturato di 100mila hrvine».
Il risultato? Forse è una scarica di adrenalina quando vedi schizzare il rilevatore di radioattività, da 10 a 900 microroentgen appena hai fatto pochi passi all'interno della città proibita. O forse è lo sconforto , dopo aver superato il check point di Dyatky, di giungere a Chernobyl attraversando soltanto la desolazione, più desolata e desolante, di una zona che un tempo era abitata da quattrocentomila persone. Quel guardarti attorno e vedere solo triangoli rossi che segnalano case e strade sepolte sotto dieci metri di terra per arginare le fughe radioattive. E poi la tristezza delle lapidi che, dentro la zona interdetta, ricordano «gli eroi che hanno salvato il mondo». Già, gli eroi che hanno salvato il mondo. Nell'apocalittico scenario di quelle ore ebbero un ruolo non meno drammatico i 600mila «liquidatori», cioè le persone incaricate del seppellimento delle scorie più pericolose nei trenta chilometri all' intorno del reattore, e impiegate, nei sei mesi seguenti all'esplosione, a costruire quel gran gabbione alto 74 metri, che ricopre oggi il reattore distrutto. Il «sarcofago», appunto.
«Siamo stati contaminati a migliaia tra operai e tecnici. Ma nel novembre 1986, grazie al nostro coraggio, Chernobyl fu dichiarata dalle autorità sovietiche di nuovo sotto controllo». Eugeny Fimenko, 64 anni, è un ex ufficiale dell'esercito. Lo incontriamo a Kiev. Era in servizio a Chernobyl nei giorni del disastro. «Fui tra i primi - racconta quasi balbettando per l'emozione - che intervennero a mani nude sul luogo dell'esplosione. Solo in quel primo impatto mi sono preso in tutto il corpo con 200 Rem di radiazioni. Per più di duecento giorni ci misero a lavorare senza sosta per spegnere il reattore esploso. È stata un'esperienza terribile, provo a cacciare indietro quel ricordo, quei giorni. Ma come si fa? Ogni volta me la ritrovo, la rivedo davanti come un film straziante».
Eugeny oggi tira avanti, come un derelitto che sopravvive a se stesso vedendo morire, uno dopo l'altro, gli amici e i colleghi che erano con lui quel 26 aprile del 1986. Così ha scritto una lettera a Yushcenko e unaltra a Yanukovic per chiedere che, se non la pensione, venga aumentata almeno la quota destinata all'acquisto dei medicinali con cui deve curarsi. Niente. Dovrà continuare a cavarsela con 12 copechi. La miseria degli spiccioli che non si darebbero nemmeno a un medicante.
La nuvola radioattiva di Chernobyl contaminò in varia misura l'Europa. Centosessantamila chilometri quadrati di territorio inquinato, per intenderci una regione pari al doppio dell'Austria. Circa 9 milioni di persone furono colpite direttamente o indirettamente da una sorta di genocidio atomico. Gli elementi più volatili precipitarono a grande distanza, vedi lo iodio 131 e il cesio 137 che fu trovato anche in Italia, in quantità maggiore al Nord e minore al Sud. Da noi come in Polonia, Germania, Austria, Ungheria, fu necessario distruggere prodotti agricoli e latte contaminati. In Finlandia, Svezia e Norvegia si dovettero eliminare le carcasse delle renne morte per aver mangiato vegetazione contaminata. In Ucraina, Russia e Bielorussia furono inquinati 130mila chilometri quadrati di territorio. Le prime notizie furono frammentarie. Si sapeva soltanto di diverse persone ricoverate per ustioni. Le autorità dell'impero sovietico già in disfacimento cercarono persino di disturbare le trasmissioni radio provenienti dall'estero ma da una stazione svedese fu possibile sapere che in una vasta zona, non lontano da Kiev e dal confine con la Bielorussia, i livelli di radioattività si erano improvvisamente alzati a dismisura. Dei 135mila abitanti della zona vietata dopo l'incidente, 115mila furono allontanati nella prima settimana. Oltre ottantamila sono stati spinti ad andarsene o se ne sono andati spontaneamente in questi vent'anni.
Il maggiore effetto della catastrofe è stato l'aumento dei tumori della tiroide nei giovani di meno di 15 anni quattro anni dopo l'incidente in Bielorussia, quindi in Ucraina e, dal 1992, in due regioni della Russia. Uno studio sui bambini di Mogilev, 300 chilometri da Chernobyl, pubblicato su Nature, rivela infatti una abnorme frequenza di mutazioni genetiche. I ricercatori hanno esaminato i «microsatelliti», ovvero pezzetti di Dna nel nucleo delle cellule . Nei figli nati nelle famiglie esposte all' incidente atomico compaiono infatti mutazioni genetiche con frequenza doppia rispetto ai bambini nati altrove. Queste mutazioni rappresentano un danno al codice genetico che viene trasmesso di padre in figlio, in modo indelebile. Oltre che sulla popolazione umana ci sono state conseguenze su quella animale. E, su questo fronte, leggende e realtà si mescolano nella Chernobyl di oggi, popolata da mostruosi mutanti. Si racconta che nelle ore notturne scorrazzino cinghiali famelici, di stazza tripla del normale. Saranno fantasie ma si vedono orribili pesci siluro di una trentina di chili di peso che nuotano nelle acque contaminatissime del Pripyat, il fiume affluente del Dniepr. Pripyat era anche la cittadina-dormitorio dei lavoratori di Chernobyl , sei chilometri dalla centrale. Dove oggi i palazzi evacuati sono ancora in piedi assieme ai resti di qualcosa che dovrebbero essere un supermercato e di due alberghi. Ci abitavano in 45mila qui, ora somiglia a una discarica a cielo aperto. Sono state erette barriere che, nottetempo, vengono eluse da curiosi, sciacalli o collezionisti di macabri reperti. Ci sono persino cento-centocinquanta abitanti della regione che hanno deciso di tornare. Per concludere la loro vita lì dove sono nati e cresciuti. Eremiti alla fame, che vivono come reduci di una guerra che sanno di aver perso tanti anni fa, sparsi in una decina di villaggi.
Ufficiale è invece la presenza di quattromila persone che alla centrale continuano a lavorare. Si sforzano di essere ottimisti. O di far finta di niente. D'altra parte la loro vita e quella dei loro ventimila familiari dipende dal futuro di Chernobyl. Mangiano cibo sicuro, visto che tutto, a cominciare dall'acqua e dalla farina arriva da zone non contaminate. Le squadre che lavorano nelle zone a maggior rischio vengono sostituite ogni due settimane.
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