Timido, riservato, fragile. Magrissimo, occhi pallidi. Meno di un metro e sessanta di statura, quarantacinque chili di peso. Una figura quasi uscita da un racconto allucinato di E.T.A. Hoffmann.
I contemporanei ebbero soltanto una pallida idea dell’importanza e dell’originalità della musica di Frédéric Chopin (1810-1849). Tutt’altra opinione quella dei maggiori colleghi, riassunta nel celebre invito scritto da Robert Schumann che esortava a stendere il cappello davanti al giovane polacco, dopo avere ascoltato la sua opera 2, le deliziose Variazioni su un tema del Don Giovanni di Mozart, Là ci darem la mano. Il padre di Fryderyk/Frédéric, Nicolas Chopin, era originario di Marainville (Lorena). Dunque l’adozione alla Francia del musicista più intimamente polacco della storia non è dovuta al noto sciovinismo transalpino, ma poggia su autentiche radici familiari.
Precoce, dotato, Chopin improvvisava con facilità fin dalla fanciullezza. Due incontri musicali cambiano il corso della sua vita. A dieci anni ascolta la famosa cantante Angelica Catalani e ne riceve un decisivo incoraggiamento. Quella per il belcanto rimarrà una passione per tutta la vita. Un decennio più tardi è travolto dal sulfureo virtuosismo di un altro artista italiano, Niccolò Paganini.
L’essersi occupato quasi esclusivamente del pianoforte (con poche ma significative eccezioni, il Trio, op. 8, la Sonata per violoncello, op. 65, i canti polacchi, pubblicati postumi), e non di melodramma, musica sacra o sinfonia per qualcuno era sinonimo di inferiore statura artistica. Non è così. Come scrisse uno dei suoi più intimi amici, il pittore Eugène Delacroix, Chopin «si accontentò di vedere il suo pensiero integralmente riprodotto sull’avorio della tastiera». Come Petrarca scelse il sonetto e la canzone, così Chopin trasformò la polacca, la mazurka, il valzer, il notturno, il preludio in modelli perfetti, improntati alla natura del suo genio poetico. «Quale fiduciosa intuizione delle possibilità future del proprio strumento ha presieduto questa volontaria rinuncia a una pratica così comune», si infiammava nel ricordo post mortem un suo ammiratore fedele, Franz Liszt.
Un fatto straordinario fu la sua eccezionale fama di interprete. Non c’è nessun altro esempio di una così grande notorietà costruita soltanto in una trentina di concerti pubblici. Dopo la folgorante apparizione a Parigi nel 1832, Chopin preferì suonare insieme con Liszt e con altri artisti, eseguire la romanza del suo Concerto per pianoforte e orchestra in mi minore, op. 11 (Hector Berlioz dirigeva l’orchestra del Conservatorio di Parigi) oppure accompagnare il tenore Adolphe Nourrit in un concerto a favore dei rifugiati polacchi.
Un pugno di apparizioni leggendarie. Poi, più nulla; fino ai drammatici concerti del 1848 in Inghilterra, quando la turbecolosi lo aveva condotto al passo estremo. Proprio la terribile malattia lo spinse a misurare le forze, a prediligere le alcove più segrete dell’aristocrazia parigina piuttosto che le grandi arene, dove i virtuosi del suo tempo si scannavano. Confessò a Liszt: «Non sono adatto a dare concerti, sono intimidito dal pubblico, mi sento asfissiato da quei respiri affannosi, paralizzato da quegli sguardi curiosi, muto davanti a quei volti estranei; ma voi sì, ci siete destinato, perché, quando non conquistate il pubblico, avete di che ucciderlo». Liszt è fra i pochi a cui sono aperte le porte dell’appartamento sulla Chaussée d’Antin. Amici devoti ascoltano ammirati Chopin: Heinrich Heine che lo paragona a Raffaello; l’architetto di melodrammi ciclopici, Giacomo Meyerbeer; l’ascetico gran tenore Nourrit; la sua allieva Pauline Viardot, cantante fra le più ammirate del secolo diciannovesimo, con cui condivide la venerazione per Mozart; il «Dante del Nord», il poeta-esule dal volto scuro Adam Mickiewicz; la scrittrice George Sand, la sua più celebre amante, curiosa e soggiogata, sprofondata in una poltrona.
Per sbarcare il lunario Chopin dà lezioni private a chi può permettersi il suo onorario, lasciando un’indelebile traccia anche come didatta. La tubercolosi lo costringe alla rinuncia più grande, all’inattività, alla noia. Non può più comporre; nemmeno suonare Bach, gioia massima con cui ha iniziato tutte le giornate, anche le più nere. Solo quando può parlare di musica si rianima. Dopo una passeggiata in carrozza con Delacroix, durante una sosta all’osteria, il pittore gli chiede lumi sulla logica in musica. «La fuga è come la logica pura in musica. Essere sapienti nella fuga è conoscere l’elemento di pura ragione e di pura deduzione in musica. La scienza vista così, dimostrata da un uomo come Chopin, è l’arte stessa, e l’arte allora non è più quella che tutti credono, cioè una specie di ispirazione che viene da non si sa dove, che procede a casaccio e non fa vedere che l’esteriorità pittoresca delle cose. Ma è la ragione stessa arricchita dalla fantasia, che si sviluppa secondo la necessità di un legge superiore».
È il 7 aprile 1849 (secondo il Journal di Delacroix). Chopin si spegne il 17 novembre, circondato dall’affetto degli amici e dalle premure della fedele Delfina Potocka. Funerali di Stato lo attendono nel tempio della Madeleine. La Viardot e il famoso basso Luigi Lablache, che tante volte Chopin aveva applaudito al Théâtre des Italiens, sono fra i solisti del Requiem di Mozart, espressamente indicato dall'artista per le sue esequie. Viene sepolto al cimitero del Pêre Lachaise fra la tomba di Vincenzo Bellini e quella di Luigi Cherubini. «Due geni differenti», commenta Liszt, «ai quali pure Chopin assomigliava in egual misura, avendo tanto in pregio la scienza dell’uno, quanto provava naturale inclinazione per l’altro.
Chopin è uno dei compositori più eseguiti e allo stesso tempo più frainteso di tutta la storia della musica: in questa strana contraddizione risiede il segreto del suo prodigio.
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