Ci vuole l'arte di amare per "La ragazza immortale"

Nel romanzo di Camillo Langone, la passione fra un uomo di mezza età e una giovane affascinante

Ci vuole l'arte di amare per "La ragazza immortale"

La ragazza colta e differente si accomoda al tavolo del Caminetto d'oro, con la circospezione dovuta alla gonna stretta di pelle nera, una delle prime cose che ho notato di lei mentre cinque minuti fa incedeva sui tacchi in via Galliera verso di me. Pelle o forse plastica? Non glielo chiedo, amo il mistero e amo il sogno: voglio credere che sia pelle. La trasparenza uccide, in amore e in molti altri ambiti, ma in amore è peggio, è una catastrofe, banalizza l'altro e fa crollare l'intero castello. Della creatura dalle labbra carnose seduta davanti a me non voglio sapere molto, ho deciso, non voglio sapere del suo primo uomo, non voglio sapere del suo ultimo uomo, a dirla tutta non voglio sapere di nessun individuo di sesso maschile che rivesta o abbia rivestito un qualsivoglia ruolo nella sua vita. Nemmeno di suo padre. Tantomeno di suo padre che potrebbe essere tranquillamente mio coetaneo. Con le donne sono sempre stato così: per spoetizzarmi, svogliarmi, basta il nome di un vecchio fidanzato. So che a molti uomini piacciono le donne d'altri e proprio perché d'altri. Desiderio mimetico, l'ho imparato leggendo René Girard. Io però ho il problema opposto: se una donna è d'altri o anche se piace troppo ad altri (ad esempio se risulta cliccatissima sui social) mi suscita una leggera repulsione.

«Mangio tutto».

Dice proprio così. Le avevo chiesto cosa volesse ordinare. Oggi le persone, e soprattutto le donne, e soprattutto le donne giovani, si identificano con i propri tabù alimentari: vegane, vegetariane, pescetariane, nemiche delle frattaglie... Più tutte le innumerevoli allergie e intolleranze e credenze ortoressiche, a cominciare dal Bio che in loro ha soppiantato Dio. Tralasciando le poverette sempre a dieta, quelle che attraverso il martirio del digiuno sognano di poter sfuggire alla genetica, a ossa e trippe ereditarie. «Mangio tutto» non significa che vuole divorare l'intero menù (e come potrebbe, sottile com'è?) ma che non soggiace a tabù alimentari. Sono un uomo fortunato.

«Decidi tu».

Sono un uomo fortunatissimo. Decido io: niente antipasti perché sono i nemici dei pasti. I tortellini per lei e le tagliatelle per me, due piatti diversi così poi ce li giriamo. Perché mangiare dallo stesso piatto produce intimità. Il mio secondo è il «bollito tradizionale in tazza con polpettone, cappone, cotechino, lingua e doppione, servito con salsa rossa e salsa verde», nome faticoso e però, come tutto oggi in questo ristorante, risultato perfetto. Per lei ho scelto il coniglio profumato al timo, cotto allo Josper con olio alla senape, crudità di verdure e purée di piselli» ed è un'altra decisione innocente solo in apparenza. A parte che ignoro questo Josper (un nuovo metodo di cottura?), il coniglio è cibo schifato anche da parecchie carnivore sedicenti. Dicono faccia tenerezza, con le orecchie lunghe che si ritrova. Dicono sia un animale da compagnia e devono essere messe molto male quelle che si sono ridotte ad accompagnarsi con un roditore. Una donna che ha problemi a mangiare coniglio ha ben altri problemi. Benedetta non solleva questioni. Ne sono sempre più ammirato.

«Come mai ti chiami Benedetta?»

«Perché sono di San Benedetto del Tronto!»

«Ah, giusto, me l'avevi detto».

Rischio di innamorarmi pure dei suoi genitori, capaci di darle un nome così puro e coerente. Su internet sono perseguitato da immagini di donne avvenenti che si chiamano Jessica, Isabel, Nicole, o che si fanno chiamare Mary, Patty, Rosy...

Be-ne-det-ta.

Lo degusto lentamente questo nome, me lo faccio girare in bocca come fosse un vino buono.

Be-ne-det-ta.

Già immagino di versarglielo nell'orecchio durante l'amore fisico.

Be-ne-det-ta.

Le dico quanto mi piace il suo nome ma senza enfasi, ho la coda di paglia, non vorrei scorgesse in me il complimentatore seriale, l'annoso dongiovanni che lusinga tutte, belle e brutte, seguendo un metodo collaudato. Sicuramente nel corso della mia lunga carriera avrò lodato nomi assurdi. Nella notte dei tempi potrebbe essermi capitato di manifestare entusiasmo per il nome Samantha (una cameriera? Una cassiera?), sotto l'influsso dell'alcol e di una canzone losca di Lou Reed: «I want to be black / have a girlfriend named Samantha / and have a stable of foxy whores». A proposito, come mi piaceva Lou Reed e come ancora oggi mi piace ascoltare A gift in autostrada di notte, tornando da un incontro avventuroso, in loop: «I'm just a gift to the women of this world...» Con totale identificazione, sempre più convinto a ogni ripetizione che sì, «like a good wine, I'm better as I grow older»...

Chissà poi se l'ho conosciuta davvero una Samantha (un'operaia? Una lavandaia?) e in ogni caso ricordarsi poco o nulla è un bel vantaggio, nemmeno volendo potrei somigliare ai coetanei nostalgici, patetici, che riesumano storie morte, a volte perfino del periodo scolastico, dicendo ogni dieci minuti: «Mi ricordo...»

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