da Milano
Dopo dodici anni rivince uno straniero. Uno straniero capitato qui quasi per caso. Uno straniero iscritto pochi giorni prima del via, che non conosceva il percorso, che pensava di fermarsi dopo una settimana di presenza simbolica. Uno straniero che torna in Spagna senza vincere nemmeno una tappa.
Che cosa significa tutto questo? Che l'Italia della bicicletta è così sinistrata? Stranezze della vita: questa sconfitta permette conclusioni molto più consolanti di tante recenti vittorie. Un nome, su tutti, a tenere alto il morale: Riccardo Riccò.
Basta il risultato, non servirebbero molte parole. L'anno scorso, al suo primo Giro, sesto. Questa volta, al secondo tentativo, secondo anche sul podio. Subito dietro a un signor vincitore. Di più: due vittorie di tappa, molti attacchi, e soltanto una giornata abbastanza grigia, purtroppo proprio quella del Mortirolo.
Niente da dire, c'è la risposta attesa: Riccò può vincere le grandi corse a tappe. Ha solo 24 anni, non può che migliorare. Basta un passo in avanti nelle cronometro, poi non manca granché. Di sicuro, non gli mancano il carattere e la sicurezza nei propri mezzi. Tutto può mancargli, non l'autostima.
Ma per fortuna che c'è il Riccardo, canta allora l'Italia guardando al domani. In attesa che magari Cunego fornisca a sua volta qualche buona risposta nel prossimo Tour. Ma se vogliamo essere realisti fino in fondo, qualcosa bisogna doverosamente dire sul lavoro più delicato che aspetta Riccò: non la cronometro, ma il temperamento.
Ripercorrere alla moviola il suo Giro di parole è un'odissea nello strazio. Va bene la spontaneità, va bene la decisa condanna ai chierichetti e ai ruffiani che non si espongono mai, ma Riccò si spinge ben oltre. Al bullismo nudo e crudo. Nel Giro di tre settimane, riesce nell'epica impresa di crearsi attorno un deserto del Sahara. Contador? Gli dà del bugiardo, sostenendo di non credere che fosse in vacanza prima della chiamata in Italia. Poi, in rapida successione, stermina tutti gli altri rapporti, dentro e fuori la corsa. Ultimo, come dimenticarlo, il povero Emanuele Sella, cui dà apertamente del venduto per aver tirato sul Monte Pora. In extremis riesce persino ad arrivare là, nel mondo dell'impensabile: liquida persino la propria squadra, sostenendo che con una squadra vera avrebbe vinto il Giro. Il che nella liturgia solenne e segreta del ciclismo è come sparare sulla mamma e sulla nonna. Nessuno, mai, scaricherebbe la squadra. Nemmeno sotto tortura.
Ogni volta la storia è la stessa. La sera sbarella, la mattina dopo prova a lavorare di Bostik, rimettendo affannosamente insieme i cocci. Operazione decisamente ardua, visti i danni ingenti. Prova a ricucire con la Rai, prova con Sella, rettifica in modo abbastanza sgangherato le parole sulla squadra. Ma gli effetti non sono granché. Lo riconosce lui stesso, prima di partire per due settimane di vacanza in Sardegna, dove presumibilmente finirà a maleparole col cameriere e col gestore del pedalò: «Lo ammetto, ho un caratteraccio. Ma quando sono lì a lottare per vincere, divento impulsivo. Dico cose di cui poi mi pento. In cinque secondi mi si gonfia la vena e parto... ».
La dichiarazione di resa è già un primo, timidissimo passo. Conoscersi per migliorarsi, si legge su qualsiasi manuale di psicologia fai-da-te. Riccò dovrà applicarsi molto.
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