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Cina, repressa nel sangue rivolta separatista

La Cina fa le pentole, ma dimentica i coperchi. A pochi mesi dalle Olimpiadi fece i conti con la pignatta eternamente ribollente del Tibet. Oggi il salto della caffettiera colpisce in pieno il suo presidente Hu Jintao arrivato in Italia con l'incrollabile certezza di poter discutere soltanto d'affari al G8.
E invece 60 anni dopo l'entrata delle truppe di Mao nella Repubblica dell'Est Turkestan, ora chiamata Xinjiang, ecco la nemesi storica, la rivolta capace di trasformare la capitale provinciale di Urumqi in una sanguinosa prima linea disseminata di morti e feriti. Gli scarni resoconti provenienti da quel formicaio da due milioni e mezzo di anime parlano di 156 cadaveri e oltre 800 feriti raccolti fra città e dintorni dopo i durissimi scontri di domenica pomeriggio.
La rivolta, la più sanguinosa dopo Tienanmen, sembra un déjà vu dei disordini di Lhasa del marzo 2008, un malessere tracimato in una vampata d'odio e capace di travolgere chiunque rappresenti l'odiata minoranza cinese Han. La rabbia s'innesca intorno alle botteghe del bazar Erdaoqiao, il mercato della città vecchia, ultimo caposaldo di una etnia musulmana e uigura schiacciata da 60 anni d'immigrazione cinese.
Lì da giorni gira la voce del massacro d'alcuni lavoratori uiguri fatti a pezzi da una folla di operai cinesi che li accusava di aver violentato una ragazza. Fatti accaduti tra il 24 e il 25 giugno in una fabbrica di giocattoli di Shaoguan nel sud della Cina, ma su cui le autorità hanno imposto il silenzio. L'indignazione per quel silenzio fa saltare il tappo di Erdaoqiao. Da quel bazar infuriato partono le squadracce pronte a colpire chiunque sia o sembri un cinese Han. «Avevano perso la testa, bastonavano e accoltellavano tutti i cinesi che incontravano», racconta al telefono Zhang Wanxin. «Buttavano la gente per terra la colpivano fino a quando non si muoveva più», riferisce un'altra donna Han.
Le immagini dei dimostranti uiguri intenti a bruciare macchine della polizia e a far a pezzi vetrine e finestre confermano in parte l'idea di una violenza essenzialmente anti cinese. Quel che parole, immagini e bilanci ufficiali non dicono è cosa succeda la notte di domenica quando, come in Tibet, le forze di sicurezza entrano nel bazar per imporre l'ordine.
Ieri da Urumqui non uscivano né telefonate né email, ma le poche testimonianze trapelate descrivevano un clima da coprifuoco. Le voci del bazar raccontano di una notte di domenica rotta da sparatorie e raffiche di armi automatiche. Di certo il ritorno alla quiete è accompagnato, confermano le agenzie ufficiali, dall'«arresto di centinaia di responsabili dei disordini bloccati mentre cercavano di lasciare la città». Mentre le forze di sicurezza agiscono con il consueto pugno di ferro le autorità ripropongono la teoria del complotto straniero già sfoderata ai tempi della rivolta del Tibet. «Le tre forze hanno approfittato dell'incidente di Shaoguan per incitare alla violenza e al disordine», spiega il governatore dello Xinjiang Nuer Baikeli utilizzando la terminologia con cui vengono indicati i gruppi che usano separatismo, violenza ed estremismo religioso (le tre forze, ndr) per «promuovere la disgregazione della Cina» .

E subito dopo un altro funzionario punta il dito contro «la violenza premeditata ordita in America da Rebiya Kadeer, leader del Congresso Mondiale degli Uiguri». Come dire è tutta colpa di chi dall'estero paga e fomenta la rivolta contro di noi.

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