La civiltà giuridica sconfitta

La civiltà giuridica sconfitta

Stavano di fronte al Capo dello Stato, dovendo egli decidere se firmare la legge sull'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, due esigenze apparentemente in conflitto, difficili da bilanciare.
Da una parte, principi e valori che non è difficile collocare nel pieno alveo della nostra Costituzione: l'idea che il processo penale non debba trasformarsi, ad opera dell'organo della pubblica accusa, nella persecuzione di chi già una volta è stato considerato innocente; l'esigenza di evitare che l'assolto in primo grado si veda per la prima volta condannato in appello, senza più disporre di un grado processuale di merito per dimostrare la propria innocenza; il valore di ispirazione liberale per cui, mentre la parità delle armi tra accusa e difesa si ha nel contraddittorio processuale di fronte al giudice terzo, non è affatto irragionevole, ma al contrario ispirato a un favor per la libertà individuale, limitare gli strumenti accusatori dello Stato.
Dall'altra parte, stava la necessità di evitare che la Corte di Cassazione, cui la legge consente il ricorso del pubblico ministero soccombente in primo grado, si trasformi in un giudice di merito, in contraddizione con il suo ruolo costituzionale di giudice del diritto: rischio possibile, sia perché la Cassazione diventerebbe l'unico rimedio praticabile per l'accusa, sia perché la legge porta alcune modifiche ampliative ai motivi possibili di ricorso.
Da una parte, dunque, un principio di civiltà giuridica e processuale; dall'altra, esigenze «organizzative» e di lavoro rivendicate dalla Corte di Cassazione.
Ebbene, spiace dire che il rinvio del Presidente è tutto sbilanciato sulla seconda esigenza. L'insieme di valori e ispirazioni di ordine liberale che la legge conteneva viene del tutto posposto alle esigenze pressantemente sottolineate in queste settimane dalla stessa Cassazione: osservazioni che il messaggio cita esplicitamente, come se si trattasse delle fonti ispiratrici dell'atto di rinvio.
Sostiene il messaggio che l'effetto finale della legge si tradurrebbe non già in una velocizzazione dei processi penali, ma, a causa della maggiore complessità dell'esame in Cassazione, in un loro sicuro allungamento, con lesione del bene costituzionale dell'efficienza del processo.
Il messaggio indulge qui in valutazioni prognostiche forse discutibili, e forse rimediabili, ad esempio, con una migliore organizzazione del lavoro giudiziario, anche in Cassazione. Del resto, che molto della lentezza dei processi dipenda non da altro ma da quanto e come lavorano i giudici è verità ben conosciuta da chiunque viva e osservi da vicino il funzionamento della giustizia.
Invece, una legge pensata anche per rendere possibile l'eliminazione di un grado di giudizio si vede paradossalmente accusata di perseguire l'obiettivo opposto, e di ledere il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Molti ritengono che appartenga al Capo dello Stato la possibilità di rinviare al Parlamento le leggi non per soli motivi di illegittimità costituzionale, ma anche in ragione del loro contenuto.


Sembra sommessamente a chi scrive che, in questo messaggio, i motivi d'illegittimità costituzionale restino sullo sfondo e vi campeggino scelte di merito. E che la scena sia occupata da esigenze e osservazioni unilateralmente rappresentate da un organo giudiziario, senza che una parola sia spesa a favore dell'ispirazione civile e liberale del provvedimento.

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