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La clinica della paura che fa tremare i marines

Ha quasi cent’anni, ha ospitato i soldati Usa feriti in tutte le guerre e due presidenti, conta 1500 posti letto. Ricostruisce corpi. E cura il terrore che accompagna i reduci

Gabe viaggiava col sole negli occhi sulla sua jeep militare, la strada portava a Bagdad. Uno scossone improvviso e tutto è diventato buio. C’era un ordigno là sotto, il blindato è volato via, ma lui con la testa era già altrove. Ha subito ventinove operazione, un terzo della sua pelle non è suo, l’intestino è più corto di un metro e mezzo. Ma è contento di avercela fatta. O forse no. Tristan ha 21 anni, il suo carrarmato è stato colpito da un mortaio a Falluja, le schegge erano come frecce di fuoco che arrivavano da tutte le parti, ha chiuso gli occhi, pensava ormai di essere morto. Invece è qui. Non ha più la gamba destra e solo la metà del braccio sinistro, ma gli è rimasto un desiderio: «Tornare a fare il soldato». Jack invece ha lo sguardo stralunato e i nervi sempre a fior di pelle. Salta come una molla se qualcuno gli si avvicina da dietro senza far rumore e trema. E se un elicottero passa per caso dalle sue parti si raggomitola su se stesso, si appiattisce contro un muro, come se fosse ancora là, in mezzo alle bombe. Dice: «Nessuno può tirarmi fuori dall’inferno che c’è dentro di me».
Quelli che tornano dal fronte abitano tutti qui, Centro medico militare Walter Reed, una rete che raduna 75 ospedali militari e otto milioni di pazienti, soldati, ma anche cittadini, membri del governo, reduci di tutte le guerre. Persino il presidente Eisenhower e i generali MacArthur e Marshall hanno trovato un letto in questo centro che sta tra Washington e il Maryland e Ronald Reagan venne qui a farsi operare a una mano quand’era ancora presidente. Chi viene qui ha perso tutto: le mani, le braccia, la vista. O ha traumi alla testa o alla colonna vertebrale. E ferite nell’anima che non si vedono ma che non smettono mai di sanguinare. È così da sempre. Da quando furono allestiti i primi 60 letti, era il 1909, e la clinica fu intitolata a Walter Reed, l’ufficiale medico americano che identificò il virus della febbre gialla. Letti che arrivarono a 1.500 durante la prima guerra mondiale. Poi la seconda, la Corea, il Vietnam, il Golfo, i nonni, i padri, i figli, i nipoti. Tutti qui. È un’ospedale speciale anche perché pagato dalla Stato e senza il cappio imposto dalle assicurazioni sanitarie, ma tira aria di crisi lo stesso. Il Pentagono lo considera un fiore all’occhiello ma i fondi non bastano mai: i medici sono pochi e poco pagati, lavorano anche ottanta ore la settimana e i feriti arrivano tutti i giorni. Sopravvissuti. Che non sanno se benedire o maledire il destino per questo.
Al Walter Reed la sofferenza psicologica si respira con l’aria. È negli occhi dei giovani maschi amputati, delle donne soldato che insieme al corpo devono ricostruirsi un’identità, rifarsi una vita, guardarsi da oggi in poi con occhi diversi. Una sofferenza che parte da lontano e che spesso non finisce più. Dopo l’attentato alle Due torri molti soldati non riuscivano più a dormire, a fare le cose di tutti i giorni, l’idea di partire per il fronte aumentava stress e ansia. In prima linea arrivavano le palpitazioni, il nodo allo stomaco, il vomito. Soldati che dormono in posizione fetale, soldati che si arrendono al panico. C’è chi ha calcolato i limiti di resistenza psichica: non più di sessanta giorni di combattimento, non oltre i 240 giorni in tutto. Poi basta, bisogna tornare. E il ritorno non è meno doloroso. Due reduci su dieci soffrono di ansietà acuta, incubi ricorrenti, ricordi che torturano la veglia, paranoie, gravi forme di depressione, manie suicide. Perché la paura è bastarda. Ti sta dentro perché sai di dover morire.

Ma se ti risparmia ti porta via la voglia di vivere.

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