«Sì, lo dico e lo ripeto – attacca Raffaele Bonanni, segretario della Cisl – : quelli di Torino sono una quarantina di squadristi, che però fanno molto comodo a chi ragiona con il paraocchi».
E chi ragiona con il paraocchi?
«Preciso: in questa brutta storia di Torino dobbiamo mettere in evidenza due elementi. Il primo è che non si è trattato di una contestazione di natura politica. Il secondo è che qualcuno, nel mondo politico e magari anche nel sindacato, tenta di dare una qualche giustificazione fra il politico e il sociale. Si dice che è “il sintomo del malessere”, altri affermano che queste cose avvengono perché con la crisi la gente sta male. Per me, è solo una giustificazione alle loro opinioni».
Insomma, secondo lei chi sono questi contestatori violenti?
«Non sono la voce del malessere, sono la voce del... casino. Come c’è gente che va allo stadio solo per menare le mani, c’è anche qualcuno che disturba le manifestazioni sindacali. È squadrismo puro, non c’è nulla di politico».
Lei ne ha fatto le spese proprio alla Fiat, tempo fa.
«Erano in cinque che disturbavano l’assemblea, su millecinquecento operai. Ma qualcuno era soddisfatto di questa “contestazione” nei miei riguardi. I bulloni tirati contro Sergio D’Antoni nel ’92 a Milano erano politici, gli spintoni di sabato a Torino non lo sono. A Torino c’erano 10mila lavoratori che chiedevano cose normali, che gli stabilimenti italiani della Fiat restino in piedi; gli altri erano sfascisti, quelli del “tanto peggio, tanto meglio”. Chi offre loro una copertura di tipo sociologico, è lo stesso che quasi quasi si dispiace perché da noi la crisi è più mite che altrove».
Bonanni, verrebbe da dire che la Fiom, a furia di calvalcare la protesta da sinistra, in qualche maniera se l’è cercata...
«Il pozzo del ribellismo è senza fondo, c’è sempre qualcuno che va più in là... Dovrebbero saperlo tutti».
Siamo in un passaggio molto delicato per il futuro dell’automobile italiana. Lei ha detto: dobbiamo salvare ogni posto di lavoro in Italia. Vuol dire che si possono sacrificare gli operai polacchi o quelli di Detroit?
«No, no. Io non faccio demagogia. Quando dico che bisogna salvare tutti i posti di lavoro in Italia, penso soprattutto agli impianti Fiat del Sud. Perché, se saltano quelli, salta l’economia del Mezzogiorno, e non possiamo permettercelo. Ma bisogna anche essere consapevoli che negli impianti Fiat in Polonia si fa tutto quello che facciamo da noi in Italia, ma là il costo del lavoro è un terzo del nostro. In Italia dobbiamo indirizzarci verso le produzioni ad altissima tecnologia e specializzazione, i motori verdi, i motori elettrici, l’idrogeno, i motori ibridi. La Fiat ha una buona tecnologia in questi settori. Dobbiamo mantenere in Italia la testa dell’azienda, e le produzioni ad alto valore aggiunto».
Secondo lei, questa convinzione è diffusa a sufficienza?
«Dobbiamo sapere come stanno le cose, io lo so. E dobbiamo anche fare qualcosa, come il governo americano che per la prima volta ha messo direttamente soldi nel settore. Non lo avevano mai fatto, nel passato. È uno sforzo importante, e anche il nostro governo dovrebbe concedere aiuti, in cambio di garanzie. Il sindacato deve avere più coraggio, come lo hanno avuto i nostri colleghi di Detroit. Per questo chiediamo un incontro con l’azienda e il governo, un incontro alla luce del sole. E le dico che non andremo solo per ascoltare, ma porteremo delle proposte».
All’uscita dalla crisi, la geografia automobilistica globale sarà mutata. L’Italia sta facendo di tutto per restare nella carta geografica: i sindacati dovrebbero esserne contenti.
«Aspettiamo di vedere il piano industriale della Fiat prima di esprimerci. In ogni caso, è importante che ci siano grandi gruppi che vogliono mettersi insieme agli italiani, e questo vuol dire che la Fiat e l’Italia sono appetibili. Qualche tempo fa non sarebbe stato così, non saremo stati considerati. La Fiat oggi è credibile agli occhi degli altri, per affrontare la sfida del mercato negli anni prossimi, e l’Italia ha i talenti per fare cose avanzate. Il sindacato sa di muoversi in un’economia di mercato, che al termine della crisi sarà profondamente trasformata».
Fra il segretario della Cisl che parla di mercato e i Cobas che parlano con la violenza, la sintesi «sindacale» è possibile?
«In questa sfida vedo una grande responsabilità che si devono assumere sia l’azienda che il governo.
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