In «Cold Case» la fiction supera la realtà

La recente riapertura giudiziaria del delitto di via Poma, a quasi vent’anni di distanza dall’efferata morte di Simonetta Cesaroni, sarebbe un tipico spunto per una versione italiana di Cold Case (sabato su Raidue, ore 21,15), serie televisiva tra le più pregevoli che ci siano giunte dagli States. Si dice che la realtà superi spesso la fantasia, ma non sempre è così o perlomeno non così spesso l’attualità regala agli sceneggiatori storie che possano essere sviluppate con l’acume e l’introspezione psicologica di cui si avvale questa fiction che ha per protagonisti gli inquirenti della Squadra Omicidi di Philadelphia, talmente assatanati di giustizia da voler riaprire i casi irrisolti che si perdono nella memoria, i delitti dimenticati, archiviati, considerati senza più speranza (per l’appunto i «casi freddi» secondo la traduzione letterale del titolo).
Il sentimento che provoca la visione di Cold Case è in linea di massima frustrante, se ci si ferma a un puro calcolo statistico di comparazione tra i successi virtuali delle investigazioni immaginate dal copione e gli esiti di quelle calate nel mondo della realtà, dove individuare i responsabili dei delitti sembra diventato sempre più difficile e anche quando vi si riesce gli stessi hanno molte opportunità di farla franca per qualche errore di procedura, per alcune falle nel percorso dell’indagine o il mancato reperimento di prove più che certe. Ogni caso affrontato in questa fiction risponde invece a una tale spasmodica attenzione nel cercare e pretendere giustizia da lasciare poche speranze a chi pensava che il passare del tempo fosse il miglior complice possibile di ogni omicidio non immediatamente risolto.
E poi c’è il valore artistico, naturalmente: ogni episodio è, innanzitutto, un esempio di accuratissima ricostruzione d’epoca, con i flash back che non si limitano a fare da abitudinario espediente narrativo come è diventato di moda in troppe serie televisive, ma servono a inquadrare il periodo in cui si era svolto il delitto attraverso il ricorso alle musiche di quel tempo, le pennellate d’ambiente e una serie di espedienti visivi di straordinaria efficacia, dal bianco e nero all’effetto seppia sino alla pellicola sgranata. In Cold Case il passato non è mai un alibi per giustificare come siano cambiati i sentimenti di tutti i personaggi in gioco: il cerchio si deve chiudere e i conti anche, a qualunque costo. Il lato più suggestivamente intrigante di ogni indagine è proprio l’incrocio continuo tra la ferrea determinazione del lavoro dei poliziotti e la resa dei conti esistenziale con cui entrano in contatto, che riguarda colpevoli, superstiti, parenti (obbligati a riaprire ferite dolorose) ma anche loro stessi.

Asciutta e impeccabile la recitazione dei principali protagonisti, tra cui spicca la tosta detective Kathryn Morris nei panni di Lilly Rush. Sono tutte o quasi facce che una volta viste non si dimenticano, e anche questa non è una prerogativa da poco.

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