Pedro Armocida
da Roma
Il mio migliore amico di Patrice Leconte è una di quelle commedie che fanno il proprio dovere perché lascia un retrogusto amarognolo nel trattare con tocco leggero un argomento serio come l'amicizia. All'uscita del film poi scatta subito il gioco di società o peggio personale: quanti amici abbiamo? E chi è per definizione il migliore amico? Quello che puoi chiamare alle tre di notte, come si dice nel film?
Tanto per tranquillizzarci neanche il regista francese ha chi chiamare a quell'ora della notte, così ieri alla presentazione del suo film ha scherzato con una giornalista: «Se mi dà il suo numero posso contare su di lei?», aggiungendo che «in verità, se ora ci penso, non saprei bene a chi telefonare. Anch'io ho molti amici ma mi manca quello mitizzato, il migliore. Non averlo però non è una tragedia. Lo sarebbe non averne nessuno». Ma Il mio migliore amico in uscita in cinquanta sale il 6 dicembre (due settimane prima che in Francia e di mercoledì alla vigilia del lungo ponte dell'Immacolata), nel raccontare la storia di François (interpretato da Daniel Auteuil), antiquario di successo, che a una cena di compleanno non riesce, con suo stupore, a dire un solo nome di un amico alla socia (Julie Gayet) che lo provoca - «al tuo funerale non ci sarà nessuno» -, mette proprio il dito nella piaga della difficoltà odierna delle relazioni umane.
Spiega Leconte: «Per avere dei veri amici bisogna interessarsi agli altri e questo richiede del tempo. Oggi che va tutto così veloce, non siamo più in grado di farlo. E questo vale ancora di più per il sesso maschile che ha meno momenti da dedicare agli amici». Ecco allora Daniel Auteuil intento a scommettere con la socia: entro dieci giorni le porterà il suo migliore amico in carne e ossa. Ci manca poco che non lo compri per poi trovare un possibile candidato nel tassista Bruno, appassionato di quiz televisivi (uno straordinario Dany Boon), di cui finisce per diventare assiduo cliente. I soldi di mezzo in qualche modo ci sono sempre, anche se, racconta il regista, «non ci ho pensato molto o in modo consapevole. Non era una delle mie priorità però, in effetti, oggi abbiamo la tendenza a credere di poter comprare tutto. La consapevolezza di vivere in una società in cui ogni cosa ha un prezzo non può ovviamente trovarmi d'accordo. Oltretutto il denaro è uno dei vizi dell'amicizia che deve essere invece disinteressata e basata innanzitutto sulla fiducia reciproca».
Ovviamente Leconte nel suo film usa toni molto più sfocati e lievi che fanno prima sorridere e poi pensare. Così le ingenuità del protagonista che dal nuovo amico vuole avere la formula «di come si deve essere per fare amicizia», sintetizzata nelle tre S (simpatico-sorridente-sincero), diventano sintomatiche di difficoltà diffuse nella società. «L'amicizia oggi è diventata una cosa assai rara. A me piace parlare di cose importanti ma con una certa leggerezza. E questo è un tema fondamentale che ritorna, è vero, in altri miei film, ma qui è il protagonista assoluto», racconta il regista di successi come Il marito della parrucchiera e L'uomo del treno.
Come già altre volte annunciato, il cinquantanovenne e segaligno regista parigino è ormai sicuro di lasciare il cinema: «Non è un vezzo. Fare cinema è un mestiere formidabile. Ma non vorrei correre il rischio di diventare un vecchio cineasta con l'entusiasmo calante e perciò vorrei fermarmi prima. Ho già deciso quali saranno i miei ultimi tre film: il prossimo lo girerò in primavera e sarà un racconto di Natale piuttosto particolare e bizzarro; poi Paul Auster ha scritto un nuovo adattamento di L'insolito caso di Mr. Hire da realizzare negli Stati Uniti; infine con lo sceneggiatore di La ragazza sul ponte tornerò a lavorare con Vanessa Paradis e addio al cinema».
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