La commedia umana di un imprenditore

Dotato di una penna formidabile, irrideva i tabù della sua epoca. Ma era anche abilissimo a far soldi, mettendo a frutto le conoscenze di un team di banchieri

Scrisse una commedia in cui toglieva il pelo a Maometto e che dedicò a Benedetto XIV, un papa del suo tempo. Il Profeta musulmano ne esce uno spezzatino. Un sanguinario che ordina l’assassinio dello sceicco rivale come un sacro compito comandato da Allah, mentre era solo bieca vendetta personale. Un ipocrita che nasconde ai seguaci l’intima perfidia, atteggiandosi a uomo puro e glorioso combattente. Il testo ebbe successo europeo e Goethe lo tradusse in tedesco.
Nessuno ci vide intenti denigratori o una polemica confessionale. Fu chiaro a tutti che era una condanna del fanatismo religioso e un appello alla tolleranza tra i popoli. La stessa dedica al papa, più che un omaggio fu interpretata per quel che era: un’ingiunzione al capo di una Chiesa che usava ancora la tortura perché cessasse ogni violenza in nome di Dio. D’altronde, la fama dell’autore bastava da sola a escludere che le sue intenzioni fossero meno che buone.
Il commediografo era considerato campione di umanità. Dotato dalla natura di una penna formidabile, irrideva i tabù della sua epoca. «Ridete e li schiaccerete» era uno dei suoi motti riferito agli avversari che erano i parrucconi, i preti e i potenti. Non pensiate però che il Nostro fosse uno stinco di santo. Al contrario, era un tipo navigato, maestro nel fare i propri interessi. Un esponente di quella borghesia in cammino che allora cominciava a trovare la propria fisionomia. Nel moltiplicare il denaro era unico e aveva due modi di farlo. Uno astuto, l’altro gaglioffo.
Il primo consisteva nel prestare soldi a personaggi eminenti senza chiedere interessi, ma facendosi ripagare con vitalizi. Poiché aveva l’aria malaticcia, molti ci cascavano pensando che di lì a breve il loro debito si sarebbe estinto per la morte del creditore. In realtà, era più saldo di una roccia e visse la bellezza di 84 anni sontuosamente mantenuto dagli sciocchi che avevano abboccato. Succedeva ogni tanto che i suoi altolocati debitori, fossero il principe di Württenberg o il duca di Richelieu, «scordassero» di versargli le rendite cui aveva diritto. Ricorreva allora a un espediente: diceva che, prossimo alla fine, aveva rinunciato ai beni di questo mondo e che ne aveva ceduto i diritti ai familiari. Un modo di far capire che i suoi aventi causa non sarebbero stati così accomodanti e remissivi come era stato lui. L’effetto era immediato e il flusso dei vitalizi riprendeva regolarmente.
L’altro modo di accumulare ricchezze era in perfetta antitesi con le convinzioni pacifiste e umanitarie che professava. Speculava infatti nelle imprese marittime e coloniali. Profittò di tutte le guerre del suo tempo, da quelle per le successioni polacca e austriaca alla guerra dei Sette anni, impiegando con profitto il suo denaro nel traffico di armi. Fu anche azionista di una compagnia di navigazione livornese specializzata nella tratta di schiavi tra l’Africa e il porto labronico, il più attivo in questo genere di commerci. Per superare le grane che procuravano questi affari disinvolti, aveva al soldo un team di banchieri guidati dal celebre Jean Robert Tronchin di Ginevra. Un onere lautamente ripagato: quando raggiunse la settantina, la rendita annua del Nostro superava i 200mila franchi, pari a oltre 3 milioni di euro odierni. Ripeto: rendita annua!
Aveva diversi modi di spendere. Acquistò una fattoria in territorio francese, in posizione però strategica. Era ai confini col cantone svizzero di Ginevra, ma nella diocesi di Annecy nel Regno di Savoia. Con un piede in tre Stati, poteva facilmente rifugiarsi nell’uno o nell’altro, secondo l’autorità con cui veniva a lite. Rischiava infatti spesso l’arresto per i suoi scritti fulminanti contro i mali dell’epoca, dalla censura delle idee alla pena di morte irrogata con pari capriccio da monarchi, preti e pastori calvinisti. La tenuta aveva quattromila viti, ventimila alberi, una stalla con venti buoi, cinquanta vacche e una dozzina di cavalli. Nella villa neoclassica dove abitava, il vegliardo viveva con la nipote. Una figlia di sua sorella, che era anche la sua amante incestuosa.
Spesso trovavano scampo da lui povericristi ingiustamente perseguitati di cui il Nostro si ergeva a difensore contro tutto e tutti. Protesse i Sirven, due protestanti accusati di aver annegato la figlia e condannati, il padre a essere arrotato vivo, la madre a essere impiccata. In realtà la ragazza si era ammazzata buttandosi in un pozzo, impazzita per le violenze di un vescovo che voleva convertirla al cattolicesimo. Con una furiosa campagna di stampa, nella quale profuse ingegno e denaro, il Nostro ristabilì la verità. Egualmente, riabilitò la memoria del cavaliere de La Barre, torturato prima e dopo la sentenza, decapitato e arso, per non essersi tolto il copricapo al passaggio di una processione. Gli argomenti sferzanti che portò per stigmatizzare l’assurda sentenza fecero il giro d’Europa.

L’imperatrice Caterina di Russia gli scrisse: «Avete vinto i nemici del genere umano: la superstizione, il fanatismo, l’ignoranza, il cavillo, i cattivi giudici». Concluse ammirata: «Sarete immortale». Infatti, lo è.
Chi era?

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