Una rivolta al rovescio, dell'ex madrepatria divenuta colonia contro le ex colonie divenute «signore delle Onde» e «imperatrici del mondo»? Per ora siamo ancora alla sindrome di Polibio, l'ipparco della Lega Achea inviato in ostaggio a Roma che, descrivendo Roma ai suoi connazionali, stregò il cuore e le menti dei barbari conquistatori dando loro, in greco, la teoria della loro prassi costituzionale. A dire il vero Niall Ferguson, uno storico scozzese che insegna ad Harvard e alla Stern School of Business di New York, ha fatto di più, perché in un paio di brillanti e anche importanti volumi («Colossus. Ascesa e declino dell'impero americano» e «Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno», entrambi editi in Italia dalla Mondadori) ha impartito a quei pecorai degli americani una lezione di come ci si comporta quando, piaccia o non piaccia, si ha la responsabilità di un impero. Ha così degnamente celebrato il centenario della celeberrima poesia di Rudyard Kipling, «Il fardello dell'Uomo Bianco», scritta nel 1899 proprio per dare agli Stati Uniti, eredi della Spagna nelle Filippine, un corrucciato benvenuto nel Club dei Bastardi Senza Gloria.
Kipling (come pure Ferguson) me lo immagino scrivere a denti stretti e con un po' di schiuma agli angoli della bocca, certo meno sognante e beffardo di come doveva sentirsi Carl Schmitt nel 1928 quando scriveva (alla faccia dei vincitori di Versailles): «In quanto suddito tedesco, esponendo l'imperialismo americano, non posso avere altra sensazione che quella di parlare come un mendicante vestito di stracci parla delle ricchezze e dei tesori altrui». Eppure proprio la guerra ispano-americana del 1898, seguita dal corollario Roosevelt (1903) alla Dottrina Truman (l'opposizione degli Stati Uniti ad ogni ingerenza europea nel Continente americano), segnò il «Grande Riavvicinamento» della Gran Bretagna agli Stati Uniti. Il concetto di «Great Rapprochement» è stato coniato dallo storico americano Bradford Perkins, lo stesso che ha interpretato la storia americana dal 1776 al 1865 come «la creazione di un impero repubblicano», un concetto che riprende il titolo di un famoso libro del francese Raymond Aron («La République impériale», del 1973).
L'Impero Britannico raggiunse la massima espansione tra le due guerre mondiali, ingrandendosi con le ex-colonie tedesche e arrivando a controllare un quinto della popolazione mondiale e un quarto delle terre emerse. Ma già nel 1919 John Maynard Keynes vedeva lucidamente che l'intervento americano nella Grande guerra aveva iscritto sull'impero britannico una colossale ipoteca. Gli Stati Uniti cominciarono a riscuoterla nel 1942 con lo sbarco in Marocco che dette inizio fatalmente e senza una chiara volontà da parte di Washington, alla successione negli imperi coloniali europei che oggi si compie con l'intervento ineluttabile e irreversibile dell'America e dei suoi satelliti in Medio Oriente, e con l'unica significativa ma impotente protesta dell'erede al trono d'Inghilterra. Le tre guerre mondiali del Secolo Ventesimo non sono state combattute per niente, ma per decidere il controllo della storia e del futuro, e si sono concluse con l'instaurazione, per la seconda volta in Occidente dopo l'Impero romano, di un ordine imperiale che ha il suo centro nel presidente degli Stati Uniti, l'unica autorità che ha il potere non solo formale ma anche sostanziale di decidere la pace e la guerra impegnando pure i Paesi che non possono concorrere alla sua elezione.
I conati antiamericani della Francia e dell'Unione Europea sono ridicoli, il ruggito della Gran Bretagna sarebbe il Ruggito del Topo, per riprendere il titolo di un film del 1959 con Peter Sellers sulla guerra dichiarata agli Stati Uniti da un lillipuziano ducato europeo per ricevere gli aiuti economici dopo la sconfitta.
*Storico
Docente di storia
delle istituzioni militari
Università Cattolica di Milano
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