Il commento Niente applausi per l’eroe Marchionne nella Fiat degli scambi politici

Quando Sergio Marchionne contrappone, presentando venerdì scorso la nuova Grand Cherokee a Detroit, l’accoglienza che gli fanno, applaudendolo, gli operai della Chrysler a quella dei lavoratori di tanti stabilimenti della Fiat, a iniziare da quelli organizzati dalla Fiom-Cgil nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, prende una posizione largamente ragionevole. Da una parte c’è una Detroit che ha accettato rischi e condiviso sacrifici per rilanciare l’impresa, dall’altra vi sono gli ultimi mohicani della rigidità sindacale che espongono a gravi pericoli di crisi la principale industria privata del Paese.
È proprio perché gli argomenti dell’ad del Lingotto sono condivisibili che è utile cercare di capirne meglio tutte le implicazioni, riflettendo in particolare su che cosa significa la capacità dei lavoratori di partecipare alla vita dell’impresa. Non bastano le suggestioni per orientarsi e procedere. E non è neanche tutto oro quel che luccica negli Stati Uniti (dove pure l’idea di un sindacato degli «iscritti», radicato nell’azienda, contrattualista e non «di classe» o antagonista, comunque è una scelta fondamentale): se imprese come la Chrysler e la General Motors sono andate in gravi difficoltà è anche a causa di un certo sindacalismo divenuto nel tempo troppo corporativo, interessato a difendere solo le condizioni in certi stabilimenti e per certi operai, e che alla fine ha regalato condizioni d’oro alla concorrenza delle imprese giapponesi collocate su suolo americano. Il riscatto di Detroit avviene di fronte a una crisi nata anche da errori sindacali. Né si può dire che uno spirito partecipativo esista solo Oltreatlantico. Questo non è vero né per quel che riguarda i vari settori industriali nazionali, né per quel che riguarda la storia stessa della Fiat: storia di cui fa parte un lancio della Topolino frutto di una larga intesa tra l’allora ad Vittorio Valletta e il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio. Oggi i tanti contratti industriali che valorizzano enti bilaterali imprese-lavoratori non sono molto distanti dallo spirito di Detroit. E in tante imprese, dalla Mapei alla StM di Pasquale Pistorio, alla Fastweb brutalizzata dalla sbrigativa magistratura italiana, tanto per fare qualche esempio, non mancano situazioni in cui i lavoratori applaudono i loro manager.
Certe irresponsabilità, poi, non cadono dal cielo: in particolare la Fiat cedendo all’egualitarismo degli anni Settanta, esprimendo freddezza verso un Bettino Craxi impegnato a risanare l’economia italiana con la riforma della scala mobile (e nonostante che con Cesare Romiti si era organizzata la «marcia dei quarantamila quadri» per isolare gli estremisti in fabbrica), puntando su una «politica di potenza» con Paolo Fresco, costruendo con la confindustria montezemoliana l’intesa con Guglielmo Epifani e Romano Prodi che tanti guai ha portato all’Italia, questa Fiat, che tanto ha puntato sugli «scambi politici» con il sindacato invece che su una sua responsabilizzazione, un bel contributo alla deresponsabilizzazione dei lavoratori, l’ha ampiamente dato.

Certo oggi c’è un Marchionne che marcia sulla sacrosanta prospettiva di un’impresa multinazionale, c’è una famiglia Agnelli che vuole assumere un ruolo meno pervasivo, ma è difficile dopo avere sparso almeno qualche seme di tempesta (e qualche mossa in certi ambienti torinesi contro il governo del centrodestra non manca di esprimere ancora vecchi vizi) non raccogliere un po’ di venticello. Dunque: viva la lezione di Marchionne, magari con un filo in meno di arroganza.

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