Il commento Ma quanto costa curare le anime?

Nel suo libro «Fenomenologia teatrale e Fenomenologia economica», il docente Andrea Bisicchia esclude l’ipotesi che un teatro possa essere gestito con criteri aziendali. Il teatro, scrive, ha una funzione pubblica come la sanità e va quindi sostenuto essenzialmente con fondi pubblici. Il paragone con la sanità è interessante ma stride. I costi per la cura del corpo sono quantificabili per capitoli di spesa e rispondono, almeno in teoria, a criteri di efficienza: numero di interventi, giornate di degenza ecc. Come quantificare, invece, le cure per l’anima? Questione non da poco perché se il teatro prende soldi pubblici dovrebbe garantire una funzione «pubblica» riscontrabile sul territorio. Una funzione «pubblica» potrebbe essere, ad esempio, la scoperta e l’incentivo ai nuovi talenti, laboratori didattici che mettano a disposizione dei giovani il sapere artistico, e ancora l’apertura dei cartelloni a più produzioni possibili. Così avviene? No, tranne rari casi.

Più spesso - basta dare un’occhiata ai programmi - i direttori artistici dei teatri sono contemporaneamente anche i registi di buona parte degli spettacoli in cartellone; altre volte, lo sono i loro compagni di avventura oppure registi di compagnie stabili con cui scambiano i palcoscenici. Tutto normale? Sì, se non ci fosse di mezzo quella famigerata funzione pubblica e quei fondi pubblici che dovrebbero finanziare solo il teatro e non gli spettacoli e le carriere di chi li riceve.

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