Il conflitto senza fine fra russi «bianchi» e «rossi» si è spostato sulla Senna

La vecchia aristocrazia fuggita dalla rivoluzione non intende cedere le chiese e le relative proprietà a Mosca

Marco Valle

Cent'anni dopo la rivoluzione bolscevica, ventisei anni dopo la caduta del comunismo sovietico vi è ancora un piccolo frammento di Russia zarista che non dimentica e fieramente conserva tradizioni e, spesso, diffidenze. Che non dimentica.

È la galassia dei Russi bianchi, i discendenti del milione e mezzo di esuli fuggiti dal paradiso comunista tra il 1917 e il 1922. Quattrocentomila di loro si stabilirono in Francia formando una folta comunità di rifugiati politici, di sopravvissuti. È la storia amara e crudele di una folla di aristocratici, ammiragli, sacerdoti e anche di tanta, tanta gente comune: marinai, soldati, borghesi, artigiani, operai. Un quadro complesso, pittoresco e variegato.

Mentre Stalin costruiva il suo impero, l'Esagono divenne il rifugio delle fazioni sconfitte: i nostalgici dello zar accanto agli «euroasiatici», ai liberali, ai social-democratici, agli anarchici. E poi la «tana» degli artisti. Qualche nome: Chagall, Rachmanivov, Stravinsky. Tutti in fuga dal terrore rosso. Un mostro che per decenni continuò a colpire, rapire e uccidere.

Oggi, sebbene ridotti a circa trentamila persone, i «Russi bianchi» di Francia rappresentano una galassia vivace, colta, abbastanza litigiosa ma sempre influente. Economicamente e politicamente. Certo all'inizio, una volta raggiunto l'Occidente, gli esiliati per sopravvivere dovettero adattarsi ad ogni sorta di lavoro, anche il più umile. A Parigi e a Nizza, i principi divennero chauffeurs di taxi e le contesse «madame pipì» nei bagni dei bistrot, ma mantennero, per quanto possibile, dignità e fierezza. Per anni vissero «seduti sulle valigie» convinti che il bolscevismo sarebbe presto crollato e tutti sarebbero tornati in patria. Poi, nel tempo, la certezza divenne speranza e, infine, un sogno. Un miraggio.

Per sopportare l'esilio, come narra Les Russes Blancs (Tallandier, Parigi 2007), il bel libro scritto da Alexandre Jevakhoff alto funzionario della Rèpubblique ed erede di una famiglia di ufficiali della Marina imperiale , per non diventare degli sradicati, dei cosmopoliti e randagi, gli esuli, convinti di rappresentare l'unica e vera «Russia eterna», formarono un mondo chiuso in cui si parlava e di discuteva solo nella lingua madre.

Un modo d'essere e vivere, una visione del mondo trasmessa e saldata da una miriade di associazioni politiche, circoli culturali, movimenti scout, orfanatrofi. Chiese, tante chiese. E poi lavoro e molti successi e alcune grandi ricchezze.

Per capire la «piccola Russia» di Francia bisogna scoprire il Museo Cosacco di Courbevoie, una vera e propria «macchina del tempo» nella periferia di Parigi. Le sale sono un inno all'epopea delle armate bianche sconfitte: sculture di Fabergé, stendardi, uniformi, spade, quadri di generali, icone, carte, documenti. Materiali donati nel 1924 dai reduci della guerra civile e patrocinato e sostenuto dall'Amicale des Anciens de la Legion Etrangére. Un pezzo di vecchia Europa.

Nel maggio del 2008 il Museo accolse un ospite d'eccezione, Vladimir Putin, allora primo ministro. In occasione di una visita ufficiale, volle assolutamente vedere questo sancta sanctorum dello zarismo. Si commosse e donò all'associazione che lo preserva 100mila euro per ristrutturare i pavimenti ormai marci. Un gesto a suo modo storico, ma non imprevisto, non casuale.

Sin dal suo primo mandato Putin ha voluto la rivalutazione della tragica vicenda dei «bianchi» e inserendola a pieno titolo nella complessa e sofferta narrazione nazionale. Una svolta culturale e politica che si è concretizzata nella ricostruzione delle cattedrali e dei monasteri dinamitati da Stalin, la beatificazione di Nicola II, le serie televisive di Nikita Mikhalvov sull'emigrazione anticomunista, gli onori resi ai condottieri zaristi Denikin e Vangruel.

Una visione intelligente che però ha diviso, una volta di più, la comunità di Francia. Una parte importante si è dichiarata a favore dell'inquilino del Cremlino sino a pubblicare a fine 2014, il momento di massima tensione internazionale per i fatti di Crimea e d'Ucraina, una lettera di piena solidarietà con Mosca. A firmarla i grandi nomi dell'aristocrazia emigrata.

Altri esponenti sono invece rimasti in silenzio o hanno espresso le loro perplessità sull'ex agente del Kgb, non apprezzando la sua «neutralità» sui crimini del comunismo, la permanenza della mummia di Lenin sulla piazza rossa o la retorica sulla «grande guerra patriottica». Un misto di antichi sospetti e paure a cui si sommano posizioni politiche differenti e contrapposte che hanno riacceso le vecchie polemiche interne alla diaspora.

La frattura tarda a ricomporsi. Lo dimostra anche questo burrascoso anniversario del fatidico 1917. Il problema centrale è diventata la chiesa, anzi le due chiese (e le loro proprietà). Andiamo per ordine. Negli anni Venti gli esuli voltarono le spalle a ciò che restava del Patriarcato di Mosca, supino al potere sovietico, e si volsero in parte verso il Patriarcato di Costantinopoli, il cuore storico dell'Ortodossia, mentre altri scelsero la chiesa dell'Esilio, una forma indipendente e, volutamente, provvisoria.

Un problema minore per l'Urss e i comunisti, ma di certo non per Putin e, tanto meno, per il Patriarca di Mosca. Su sua insistenza la Federazione russa ha intrapreso una serie di estenuanti battaglie legali dall'Argentina alla Corea del Sud per riportare sotto il controllo i luoghi di culto russi situati all'estero. Una mossa che ha lacerato una volta di più la comunità francese; mentre la Chiesa dell'Esilio ha riconosciuto senza traumi la primazia di Mosca, i seguaci di Costantinopoli rifiutano di cedere all'«autoritarismo putinano». Come prevedibile, tutto è finito in mano ai giudici, Con risultati alterni: a Parigi la vecchia cattedrale Alexander Nevsky di rue Daru inaugurata dallo zar nel 1861 è rimasta a Costantinopoli costringendo l'ambasciata a costruire in Quai Branly un'altra cattedrale dedicata alla Santa Trinità; a Nizza invece la magistratura ha riconosciuto (ma gli irriducibili hanno fatto ricorso) i diritti della Russia sulla cattedrale di San Nicola, mentre il tempio di Biarritz continua a seguire (avvocati e giudici permettendo) la regola del Bosforo.

Una battaglia legale ma anche politica e culturale che rispecchia i diversi sguardi della diaspora sulla Russia di oggi. Ma qualcosa forse si muove. Anche sulla Senna.

Lo scorso 20 e 21 ottobre nella cattedrale Nevsky, i rappresentanti di Mosca e Costantinopoli e i loro referenti franco-russi hanno celebrato una cerimonia per ricordare, tutti assieme le «vittime della guerra civile». Un primo passo verso una riconciliazione tra le tante anime della «Madre Russia».

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