Il 31 luglio del 1940, a Zurigo, fra le montagne e il lago, nasce una bambina che si chiama Fleur Jaeggy. Sembra un nom de plume, ma è il suo. Suona mezzo francese e mezzo tedesco ma lei è svizzera, ed è anche esilissima, bionda, molto bella e con questo pseudonimo già perfetto che si ritrova all'anagrafe si avvia verso le sue future carriere: prima quella, breve, di modella; poi quella di scrittrice, in italiano, per tutta la vita. Di più: Fleur Jaeggy sposa la Letteratura, nelle vesti di Roberto Calasso, il Signor Adelphi. È il 1968 quando, con il mondo intorno in subbuglio, i due celebrano la loro piccola antirivoluzione con un matrimonio a Londra e con l'esordio di lei, Il dito in bocca, che è da poco tornato in libreria dopo una lunga assenza (Adelphi, ça va sans dire, che è l'editore di tutte le sue opere).
Come si sono conosciuti, la modella svizzera e l'icona dell'editoria (che restano ufficialmente insieme per sempre, fino alla morte di Calasso, nel 2021)? All'Università di Roma. Del resto, le luci della moda non sono l'habitat naturale per lei: pare che avesse iniziato a fare servizi fotografici a diciassette anni, con una suora da mentore. Si trovava in un istituto di Zug dove insegnavano a diventare donne di casa perfette: "Nell'idillio della mia educazione, ero agli albori del rancore. Rancore verso l'idillio, la natura, i laghi, le composizioni floreali... Lei, maman, aveva predisposto la mia vita, e la mia vita le aveva dato l'obbedienza. Ero infine libera" scrive in I beati anni del castigo (Adelphi 1989). È il suo romanzo più famoso, in cui racconta dell'infanzia e dell'adolescenza trascorse in collegio, fra la Svizzera e Roma, e di una amicizia speciale, con la compagna Frédérique: "A quattordici anni ero educanda in un collegio dell'Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve". Fleur Jaeggy lo scopre troppo tardi: "Avremmo colto un fiore per lui. Anche Kant, prima di morire, si commosse quando una sconosciuta gli offrì una rosa". I sepolcri di neve e le nebbie dei laghi svizzeri, a differenza delle passerelle, sono il suo habitat: è nata d'estate e cerca sempre il caldo, ma il freddo la perseguita, poiché il suo è un universo di brume e di ombre. Fantasmi che si muovono, voci che parlano dal nulla. Per esempio quella di Ingeborg Bachmann, la poetessa austriaca, a cui sta accanto fino alla fine, dolorosissima, in un ospedale romano, a causa di una ustione accidentale, e a cui accenna in uno dei racconti di Sono il fratello di XX (Adelphi 2014): "La vecchiaia, disse, è orribile. Ma tutto è orribile, le dicevo. Con una specie di allegria. Allora i suoi occhi irradiavano felicità, e passarono gli anni. Brevi". Ci sono altri personaggi che emergono dal freddo, come Iosif Brodskij, che "usciva dalla sua casa di Brooklyn per respirare. Per la sua passeggiata notturna. Senza cappotto. Aveva bisogno di quella qualità d'aria baltica, che aspettava la neve". E si chiede: "È forse il gelo che crea il poeta?". Sempre in Sono il fratello di XX appaiono anche la madre (da una fotografia capisce che era depressa), Oliver Sacks, un altro amante del gelo ("Lui soffre il caldo. Lui odia il caldo"), un pesce nell'acquario di un ristorante nel Bronx ("Lui sa che deve morire. Lui sa che non avrà più niente dalla vita. E osserva i clienti del ristorante. Per un momento penso che il suo destino non è diverso dal mio. Osserviamo tutti e due") e la mistica Angela da Foligno, che passeggia con Venere e le Ninfe al Museo Archeologico di Napoli, e si ritrovano tutte d'accordo con il pesce: "Condivisero le parole dell'ascetica: restarsene nella propria prigione, nella prigione dipinta, e osservare il proprio nulla".
Queste prigioni, questo monachesimo (una volta, in Grecia, una monaca la scambia per una consorella) sono un tratto della sua esistenza e della sua letteratura: Fleur Jaeggy appartiene all'élite letteraria ma diserta il jet set, da anni vive rinchiusa in casa a Milano, parla pochissimo, scrive ancora meno, e sempre e soltanto con la sua macchina per scrivere Hermes. Fra le nebbie svizzere, perfino il linguaggio è poco affidabile ("Ma alle parole bisogna pur dare credito. Bisogna almeno fingere che somiglino abbastanza al loro significato. Al loro losco significato"), per non dire della memoria: "Potevo passare così delle giornate incantevoli perdendo sempre un po' la memoria, cioè non ricordandomi più. Il trou, lo chiamavo" scrive in Il dito in bocca, dove la protagonista Lung, che appunto si porta appresso l'abitudine bambinesca, a un certo punto incontra un grande filosofo, e ne riadatta una frase: "Se è opportuno tacere quello che non si può dire, allora lo si può anche dimenticare". Un po' Wittgenstein, un po' Cristina Campo. "Mi resi irreperibile. Mi eclissai dalla faccia della terra" dice un altro personaggio, la scimmia albina. Nel libro, l'atmosfera è da manicomio perenne: quello che è vero e quello che è frutto dell'immaginazione sono indistinguibili. Ma anche quello che è prigione (la clinica, il collegio, la casa) e quello che è l'altrove, sempre sognato e mai afferrato, perennemente distante. Come il padre sconosciuto di Proleterka (Adelphi 2001).
Fleur Jaeggy, talvolta con lo pseudonimo di Carlotta Wieck, ha scritto anche testi per Franco Battiato, un altro amico, con cui lei e il marito Calasso usavano giocare a poker al lunedì sera, nella casa di Ombretta Colli e Giorgio Gaber a Milano: parole in tedesco, come quelle per L'oceano di silenzio o Shackleton, dedicata all'esploratore dell'Antartide. Ancora una volta ci porta in un mondo al di là: un altrove inafferrabile che, proprio quando sembra a portata di mano, si scansa. O forse siamo noi a scansarci, o forse sono le parole stesse, perché nemmeno uno stile perfetto è sufficiente, nemmeno la bellezza ci offre garanzie: è quella caratteristica del gatto che gli etologi chiamano Übersprung, lo scarto che il felino compie appena prima di sferrare il colpo mortale alla sua preda. Fleur Jaeggy, come il gatto, si distrae. E ci spiazza, proprio sul più bello: "È il volgersi altrove, passare ad altro, manifestare il gesto del distacco, come un addio. La divagazione dal tema, l'evasione da una parola, e insieme la caccia alle parole, il disfarsene: sono altrettanti modi mentali dello scrivere".
Perciò anche le nostre vite non possono che essere Vite congetturali (Adelphi 2009), come quelle da lei sentite affini di Keats, De Quincey, Schwob (di cui è stata Jaeggy a curare l'edizione italiana di Vite immaginarie): biografie composte di congetture, ma anche esistenze che sulle congetture si reggono, piccoli distacchi all'ultimo momento, interruzioni del nulla, sprazzi attraverso le finestre delle nostre prigioni, dalle quali osserviamo, come il pesce nel ristorante del Bronx, e cerchiamo parole e significati, seppure loschi. Ma bisogna accontentarsi, e magari commuoversi per un fleur.