Consulenti indipendenti: quale organizzazione?

Consulenti indipendenti: quale organizzazione?

In attesa dell’albo di categoria dei consulenti finanziari, vale la pena di fare il punto su come i fee only planner si stanno preparando a questa vera e propria rivoluzione nella cultura finanziaria degli italiani. Creando un nuovo mestiere specialistico. Ma non necessariamente da svolgersi in modo individuale. I consulenti, pur gelosi della propria autonomia operativa, prendono in grande considerazione la possibilità di svolgere l’attività di advisory in forma collettiva. In una srl o spa, come previsto dalla normativa, oppure in uno studio associato, formula che riscuote grande interesse pur in assenza di un quadro legislativo che ne autorizzi l’esistenza e ne chiarisca gli ambiti di applicazione. Ma c’è anche chi sostiene la collaborazione con altri advisor per condividere le spese di ufficio mantenendo intatta la caratterizzazione individuale dell’attività.

Con l’obiettivo di conoscere più da vicino i consulenti finanziari e le loro problematiche, BancaFinanza ha organizzato una tavola rotonda. All’incontro, che è stato coordinato dal direttore di BancaFinanza e del Giornale delle Assicurazioni Angela Maria Scullica e dal giornalista Marco Muffato, erano presenti Giannina Puddu, presidente di Assofinance, Luca Mainò, membro del consiglio direttivo del Nafop, e i consulenti finanziari indipendenti Maila Bozzetto, Giorgio Canella, Michele Colosio, Cesare Nistri, Fabio Michettoni, Marco Ortica, Michele Pizzorni e Andrea Zanella. Ed ecco che cosa è emerso.

Domanda. È meglio specializzarsi o proporsi come consulenti a 360 gradi?
Puddu. Solo Leonardo Da Vinci è stato capace di raggiungere livelli di eccellenza in discipline diverse. Più ragionevolmente si può puntare a raggiungere un grande livello qualitativo in una materia particolare, perché la consulenza finanziaria indipendente è un esercizio estremamente complesso, che richiede enormi competenze. Inoltre, il modo migliore e più professionale per erogare un servizio di consulenza è prevedere un ambito di squadra nella quale ogni consulente possa dare il meglio di sé.

Zanella. È tutto soggettivo. C’è chi lavora meglio in gruppo e chi da solo. Tendenzialmente lavoro meglio da solo; però quando mi rendo conto di non poter offrire il massimo al cliente, mi appoggio ad altri colleghi. Questo solo ed esclusivamente nei settori dove non mi sento così preparato.

Colosio. Partendo dal presupposto di operare come singolo professionista ritengo che sia assolutamente necessario specializzarsi in un’area definita della consulenza.

Nistri. Vorrei fare un distinguo. Il fatto di scegliere tra una consulenza a 360 gradi e una specializzazione è oggi di fatto una scelta obbligata. Esistono già rapporti più o meno formalizzati tra studi e professionisti del settore in questo senso. Ma il consulente, per esempio, non può saperne di meno di previdenza del suo cliente. Non dico che debba essere un tuttologo. Ma semmai assomigliare a un medico di famiglia, con una buona conoscenza generale, senza per questo sostituirsi allo specialista.

Bozzetto. Credo fortemente nella specializzazione. Al cliente va data informazione puntuale, corretta, precisa, approfondita e quindi è impossibile farlo in modo efficace su tutto. Tutti abbiamo un’esperienza alle spalle che va capitalizzata nell’interesse del cliente. Io ho lavorato per oltre dieci anni al servizio studi di Banca Intesa come analista finanziario responsabile di un gruppo di ricerca sui mercati obbligazionari corporate: dove il mio livello di preparazione era minore, per esempio nella pianificazione previdenziale, dirottavo senza problemi il cliente a un altro collega.

Michettoni. Anche io credo nella specializzazione. È sicuramente la condizione ottimale e un valore aggiunto se si lavora in team.

Canella. Se potessi scegliere offrirei solo la pianificazione finanziaria per il privato e la famiglia e quel filone anglo-americano che segue alcuni aspetti che non vengono curati, come il life planning. Insomma mi piacerebbe occuparmi più delle persone che dei numeri. Per motivi di cassa, però, mi occupo anche di consulenza «aziendale».

Mainò. Negli ultimi cinque anni lo sforzo della Nafop, che riunisce i soggetti remunerati solo ed esclusivamente a parcella, è andato nella direzione di creare una metodologia operativa, una practice di lavoro uniforme per gli associati. Ma è uno sforzo molto difficile, che non è ancora giunto a compimento. Tornando al discorso della metodologia operativa uniforme, riteniamo che il servizio principale da poter offrire al cliente, sia esso azienda o privato, possa essere la pianificazione patrimoniale, o finanziaria, previdenziale, immobiliare, fiscale, assicurativa, che non è un servizio da cui si parte ma al quale si arriva nel tempo. Si parte dai servizi di base per tendere poi al fee only financial planning.

D. Si riesce a reggere questa professione da soli in termini di guadagni?
Puddu. Credo che si possa reggere se si è fortunati, oppure se si è seminato molto e bene prima di iniziare l’attività di consulenza. Mi riferisco, per esempio, ai promotori, che sempre più spesso negli ultimi mesi stanno pensando di lasciare l’attività di collocamento per la consulenza. Be’, io credo che i promotori che hanno lavorato con i clienti in modo serio e professionale, che hanno rinunciato a un maggior guadagno per l’interesse del cliente riuscendo così a fidelizzarlo, potrebbero anche osare un salto in solitario ottenendo un buon ritorno economico. Di sicuro, però, ci vuole qualcuno che insegni al promotore come superare la fase di decollo, che è la più delicata.

Canella. Io ho fatto il promotore per 13 anni e da dieci lavoro come consulente indipendente. Agli inizi eravamo in pochissimi a fare questo lavoro e sono andato in cerca di fonti informative degne di questo nome. Perché volevo decidere in proprio nell’interesse del cliente, quando lavoravo per una sim prendevo delle decisioni che talvolta non erano le mie. Personalmente sono egocentrico e presuntuoso, preferisco stare da solo. Ma è un’opinione personale. Sono d’accordo, però, che se un consulente non ama stare da solo si associ pure con altri colleghi. L’importante è che il legislatore ci lasci l’indipendenza senza soffocarci di troppi adempimenti che rischiano di escludere dal mercato i «piccoli professionisti» come me.

Zanella. Ho lavorato in team per 17 anni e mi sono accorto che lavoro meglio da solo. Il lavorare nella stessa struttura, dove si condividono gli utili, pone una serie di limiti che per me sono inaccettabili. Le mie priorità sono la famiglia e la vita privata e poi il fare un’attività che mi veda ogni mattino con l’entusiasmo di affrontare la giornata. Apprezzo molto di più la collaborazione tra singoli professionisti o strutture e qui mi riaggancio al discorso del network.

Ortica. Sono un individualista per carattere. Io solo voglio assumermi la responsabilità e il controllo delle esigenze del mio cliente. E bisogna capire bene quando parliamo di forme di aggregazione di professionisti che cosa vogliamo intendere. Se un insieme di consulenti finanziari specializzati in ambiti diversi della finanza o se invece vogliamo parlare di strutture aggregate dove sono presenti un consulente finanziario, un avvocato, un commercialista e via dicendo.

Pizzorni. Svolgo questa attività in completa autonomia e con due collaboratori saltuari, ritengo si possa esercitare la professione in tante forme, anche individuali, dipende dai propri obiettivi. Assimilo un «indipendente» a un professionista individuale, come un commercialista, un avvocato o un medico, e credo che un’associazione tra indipendenti, per esempio limitata alla condivisione dei servizi (ufficio, software, fornitori, e via dicendo) potrebbe portare vantaggi a tutti, clienti inclusi. Rifacendomi alla mia esperienza di promotore presso una nota banca: una filiale di una trentina di private banker (promotori non dipendenti) con un portafoglio ipotetico di oltre 300 milioni di euro, costituiti da Gpf, fondi e unit linked, produce, volendo essere clementi verso la banca, un Ter complessivo di almeno il 2% annuo sul portafoglio, quindi 6.000.000 di euro all’anno, tutti ovviamente pagati dai clienti e ripartiti tra gestori, banca distributrice, vari manager di rete e promotori. I manager di rete in queste strutture sono quasi sempre ridondanti: c’è un branch manager, che risponde a un regional manager, che risponde a sua volta ad altri manager e così via, fino ad arrivare al vertice della «piramide»: tutta gente, con rispetto parlando, tanto ben pagata quanto inutile (intendo: inutile e costosa per il risparmiatore e, probabilmente, anche per i promotori). Queste «organizzazioni» quindi, tenuto conto delle commissioni di gestione, di sottoscrizione, degli switch e delle altre spese applicate ai prodotti collocati, costano una valanga di soldi ai clienti che, oltretutto, sono spesso ignari di quello che spendono. Per non parlare poi dei conflitti d’interesse. Aggiungo che di questo 2% ai private banker, che in realtà fanno il «vero lavoro», rimangono solo le briciole: circa lo 0,3% del patrimonio, ovvero 30.000 euro pro capite lorde all’anno. Dieci o più indipendenti potrebbero invece creare uno studio associato, largamente più efficiente della «struttura» sopra citata. Il risparmio di costi sarebbe notevole sia per il risparmiatore, sia per i consulenti.

Colosio. Sicuramente associarsi ad altri consulenti indipendenti può portare una serie di vantaggi, come la condivisione dei costi, la maggior visibilità e forza commerciale, l’unione delle competenze, l’ampliamento dei servizi consulenziali offerti. Nella collaborazione tra colleghi la difficoltà maggiore, secondo me, è quella di trovare una metodologia di lavoro condivisa da tutti. La consulenza finanziaria indipendente è, infatti, una professione giovane; nel nostro Paese, il modus operandi di ogni consulente è frutto della propria formazione, della mentalità, dell’esperienza e ognuno interpreta la professione in modo più o meno diverso. Perché la collaborazione funzioni è necessario che ci siano la condivisione di principi e metodi.

Nistri. Credo che sia ancora prematuro parlare di strutture anche perché dal punto di vista normativo grandi certezze non ne abbiamo. Anche lo studio associato oggi è un punto di domanda e sicuramente è qualcosa di diverso da una srl o una spa, che sono le ipotesi di svolgimento della professione in forma collettiva per il momento previste dalla normativa. Detto questo, credo che il futuro di questa professione sia di strutture composte da cinque o sei persone. Perché occorre presidiare bene aree di business diverse se si vuole uscire vincitori dalla concorrenza con promotori e banche nel seguire aziende, enti locali e privati. Nel team ci vuole l’analista tecnico, quello che segue le gestioni, chi sa fare un business plan, chi segue la pianificazione finanziaria oppure la previdenza, e via dicendo. E poi, purtroppo, è necessaria un’area commerciale. Dico purtroppo perché sul mercato dobbiamo confrontarci con la concorrenza della banca che il marketing lo sa fare molto bene. Aggiungo, a proposito della condivisione delle idee e dell’indipendenza intellettuale, che in uno studio associato può presentarsi anche un problema di divergenze di opinione. E anche di questo va tenuto conto.

Bozzetto. Penso che l’alternativa «studio associato» sia realizzabile preferibilmente dove le competenze individuali abbiano un buon livello di complementarietà e di affinità caratteriale. Più percorribile è la strada volta a delegare e condividere con altri professionisti tematiche specifiche sul cliente per le quali non ho una competenza diretta. Penso a una collaborazione dettata da esigenze del momento, per esempio con l’avvocato o il commercialista, offrendo in definitiva un servizio integrato al di fuori di una forma societaria prestabilita.

Michettoni. Anch’io sono un individualista. Ma ammetto la validità di una sorta di studio associato multidisciplinare. Non vedo uno studio associato tra complementari perché il rischio di frizioni a causa di diversità di vedute è molto alto. Ritengo che il futuro della nostra attività, almeno per cinque o dieci anni, sarà teso verso la professione svolta in modo individuale.

D. Parliamo ora della parcella. Su che tipo di onorario vi siete orientati, come la calcolate e perché avete fatto questo tipo di scelta?

Puddu. La mia società ha deciso di stabilire un minimo (300.000 euro) per poter acquisire l’incarico. La parcella media nel nostro caso è dell’1%.

Mainò. Sembra che stia prevalendo la tariffa flat. Cioè una parcella la cui misura viene concordata di anno in anno con il cliente, tenendo conto del patrimonio e del tempo dedicato per la sua cura, della complessità dell’intervento e di tutta una serie di parametri che alla fine si concretizzano in una tariffa annuale fissa omnicomprensiva.

Canella. Personalmente sono per una parcella definita a priori, dove il cliente sa all’inizio d’anno quanto pagherà. Il pagamento può avvenire in due tranche, una alla presentazione del progetto e una a metà percorso.

Zanella. Applico tre tipi di tariffe, possibilmente anticipate. La prima è quella relativa a un servizio continuativo; normalmente questa è a forfait e può esserci l’aggiunta di un parametro in relazione al grado di soddisfazione del cliente. Attenzione: non è legata al risultato ma al grado di soddisfazione. Il cliente, come da accordi accettati e sottoscritti all’inizio dell’anno, compila una sorta di pagella a fine mandato. Il cliente può «fare il furbo» e dare un voto più basso per non pagare l’integrazione? Può farlo benissimo. Ma l’anno successivo posso anche decidere di interrompere la collaborazione. Ma tutti i miei clienti sono stati sinora leali e corretti.

Ortica. Normalmente opero con una tariffa oraria sia con i privati, sia con il corporate. In genere, anche nel caso della pubblica amministrazione, stimo l’impegno che deriva dalla complessità dell’operazione in tutti i suoi aspetti e produco un preventivo che può essere accettato o rifiutato. Questa è la mia modalità operativa non solo nell’ambito della pubblica amministrazione ma per tutti i clienti che assisto.

Pizzorni. I nostri clienti sono principalmente famiglie, quindi la parcella dello studio è solitamente calcolata sul patrimonio affidato in consulenza e la percentuale si aggira mediamente attorno all’1%, ma può essere anche molto inferiore in funzione della dimensione del patrimonio. Applichiamo di frequente anche la tariffa oraria, sia perché alcuni clienti lo richiedono espressamente, sia perché vi sono particolari prestazioni che non possono essere collegate direttamente a un dato patrimonio ma implicano comunque un notevole dispendio di tempo da parte del consulente. In alcuni casi, sempre su richiesta del cliente, applichiamo un compenso variabile proporzionato al rendimento del portafoglio, ma solo in aggiunta alla parcella fissa annuale; non incoraggiamo, tuttavia, questa modalità, perché può portare, a nostro avviso, a una distorsione del rapporto con il cliente e a possibili conflitti di interesse che un vero indipendente dovrebbe sempre evitare.

Colosio. La parcella è in funzione del tipo di servizio e della sua complessità. Per quanto riguarda la consulenza una tantum, che può riguardare per esempio l’analisi dell’efficienza di un portafoglio finanziario o di un singolo prodotto come un fondo comune o una polizza, il costo è stabilito in base al tempo necessario all’analisi.

Nistri. Sono contrario alla performance come base di calcolo della tariffa, perché costituisce di fatto una situazione di conflitto di interesse. Per quanto riguarda le consulenze di tipo continuativo, la parcella di fatto è la remunerazione del tempo che io ritengo di dover impiegare sul cliente, quindi la mia parcella non può essere messa in discussione. Se mai, se il cliente vuole spendere di meno, si tara la consulenza in modo tale che il mio impiego di tempo sia minore. Questa è l’unica questione oggetto di trattativa.

Bozzetto.

La tariffa è a progetto per l’analisi spot, cioè per l’analisi iniziale del cliente, Tale è anche la tariffa per il calcolo del fair price e del fair value sui derivati sottoscritti dalle aziende. Consegno un preventivo e il pagamento è anticipato e in un’unica soluzione. Per i rapporti continuativi, la tariffa è calcolata in percentuale del patrimonio sotto consulenza.

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