Contro la violenza sulle donne vietiamo subito il burqa

Trentasette. Con l’assassinio di Sanaa Dafani, la giovane marocchina di Pordenone accoltellata a morte dal padre, arriva a 37 il numero delle immigrate musulmane giustiziate nel corso di questi ultimi anni. Sempre per mano di qualche familiare guidato dall’implacabile legge del dominio dell’uomo e della sottomissione della donna.
La stessa legge che si continua a predicare in molte moschee italiane, quella che insegna ai fedeli che la donna musulmana vive su un gradino inferiore della creazione e quindi non ha gli stessi diritti dell’uomo. Che è giusto e lecito malmenarla a dovere se si ribella e si allontana dai sentieri dell’Islam. E guai se intreccia una relazione con un infedele perché «cristiani ed ebrei sono scimmie e non ci si mischia con le bestie».
Sta proprio qui l’indelebile marchio di fabbrica della violenza sulle immigrate, ciò che la rende drammaticamente diversa da ogni forma di violenza sulle altre donne: la matrice religiosa. L’indottrinamento del fondamentalismo islamico che usa il corpo femminile come merce di scambio per rafforzare il controllo delle proprie comunità. E allora dovremmo imparare a guardare alla tragica fine di Sanaa come mi diceva di guardare tre anni fa alla morte di Hina Saleem una sua amica di Brescia: «Certo, dobbiamo punire i suoi assassini, ma dovremmo occuparci anche di chi arma le loro mani e manipola le loro menti. Di chi promette il paradiso ad ogni musulmano che riporta alle ragioni dell'Islam le sue donne, da vive o da morte se così deve essere».
Per tutta la durata del governo Prodi, davanti alle tante questioni poste dell’immigrazione islamica, l’Italia si è voltata dall'altra parte. Anzi, ha fatto di peggio: con i fondamentalisti dell'Islam ha installato un rapporto di vicinanza, se non di complicità. E a farne le spese sono state soprattutto le donne, la parte più debole e vulnerabile dell'immigrazione.
Ci si è arresi di fronte all’arroganza e all’impudenza dei signori delle moschee, si è detto che in materia di dignità femminile l'Islam faceva di più e di meglio della stessa Chiesa cattolica, è stata santificata la cultura del velo mentre il velo veniva bandito dalle scuole, dalle università e dai luoghi di lavoro negli stessi Paesi musulmani moderati. Si è arrivati al punto che un esponente di primo piano dell'Ulivo, Rosy Bindi, ha invocato per il burqa - uno degli strumenti più vergognosi di umiliazione e oppressione della donna utilizzati dal fondamentalismo islamico - lo stesso riconoscimento di devozione religiosa che si deve al Crocefisso. E alle donne musulmane che chiedevano disperate una difesa dello Stato per le violenze che subivano, c'erano ministri donne che rispondevano: «Basta lamenti, le donne italiane stanno anche peggio». E se imploravano qualche provvedimento per vedere tutelati i loro diritti e la loro stessa vita dicevano loro che non ce n’era bisogno, pensava a tutto la Costituzione, proprio quella che i fondamentalisti di casa nostra non hanno mai voluto sottoscrivere pubblicamente.
È anche così che si arriva a disseminare di 37 croci il calvario delle immigrate musulmane. Ed è così che le donne più illuminate e combattive dell'immigrazione hanno finito col battere in ritirata. E dunque, se si vuole che le tombe non aumentino, occorre eliminare la spazzatura del passato e riprendere il dramma dell'immigrazione islamica al femminile fin dall'inizio. Lo Stato deve tornare a far sentire la sua presenza non solo per i rifiuti di Napoli o i terremotati d'Abruzzo: dobbiamo imporre ai signori delle moschee di diffondere al loro interno il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni individuo, a partire dalla parità tra uomo e donna. Accettando una volta per tutte il principio della libertà di espressione e di religione, un principio che è patrimonio universale dell'umanità. Dobbiamo riprendere in mano la proposta di legge per un Registro pubblico delle moschee che faccia chiarezza su come vengono gestite e amministrate. E il progetto di un albo professionale degli imam che tenga lontano dai luoghi di culto islamici estremisti travestiti da predicatori. Dobbiamo impedire sin da domenica prossima, in occasione dei festeggiamenti per la fine del «Ramadan», che le donne musulmane entrino con il burqa, uno degli strumenti più vergognosi del fondamentalismo islamico, al Vigorelli ed in altri luoghi. Dobbiamo infine tornare a dare voce e spazio a chi vive sulla propria pelle le infamie e i soprusi dell'integralismo coranico. Non possiamo riempire pagine e pagine di dibattiti sulla necessità di un nuovo femminismo riducendo tutto il problema solo a una questione di vallette e di veline mentre ci vivono accanto, a decine di migliaia, donne che ancora devono lottare per raggiungere una soglia minima di emancipazione. Di sicuro non possiamo continuare a parlare di un Islam salvato dalle donne se non facciamo nulla per liberarle dalle loro prigioni. Il ministro Carfagna ha annunciato che si costituirà parte civile nel processo per l’omicidio di Sanaa Dafani. È una buona notizia. Sarebbe ancora migliore se in quel tribunale potranno finalmente entrare a portare la loro testimonianza anche le rappresentanti delle donne dell'immigrazione. Al processo per gli assassini di Hina Saleem, gli venne impedito da giudici fin troppo zelanti.

Mi disse una di loro: «Ogni giorno della mia vita potevo essere al posto di Hiina, sono stata fortunata ma forse mi è solo toccata la mia parte di sfortuna: una memoria che non vale niente». Mi auguro questa volta di ascoltare parole meno amare.
*Leader Movimento per l’Italia

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