Ma il Corano non è la Bibbia

Il problema dell’insegnamento della religione è molto diverso da religione a religione. Per il cristianesimo, che ha prodotto la civiltà moderna e che possedeva fin dall’origine il concetto che il fatto rivelato era esprimibile in forma razionale, l’idea dell’insegnamento laico della religione va in qualche modo da sé. La religione non è solo un corpo dogmatico, è anche una spiegazione del mondo; e lo stesso evento rivelato può essere espresso in modo storico e critico perché non è solo un dono divino, ma anche un’azione umana. Questo doppio elemento è nel cristianesimo legato alla stessa figura centrale di Gesù, per i cristiani vero Dio e vero uomo. Perciò è dunque possibile che l’esposizione del cristianesimo non sia un fatto di esclusiva competenza della Chiesa che avviene nelle sedi a ciò deputate, ma può essere affidato anche a istituzioni pubbliche.
Nel caso dell’Islam la situazione è interamente diversa, perché la parola coranica non è, come per il cristianesimo, parola dell’uomo ispirata da Dio, ma è parola di Dio stesso. Per fare un paragone improprio, il Corano non corrisponde a ciò che nel cristianesimo è la Bibbia, ma a ciò che nel cristianesimo è Gesù Cristo. L’apprendimento dell’Islam consiste dunque nell’incorporazione della parola di Dio nel credente mediante la sua memorizzazione, e ciò avviene in lingua araba. E nell’Islam non esiste per l’istruzione del musulmano qualcosa come la teologia o la storia, soltanto la parola è oggetto di un rapporto in sé non razionale, ma appunto in qualche modo sacro. L’Islam non ha sacralità come le altre religioni, ma il Corano e il suo apprendimento sono l’analogo del sacro.
Io non credo che i musulmani vedano favorevolmente l’esposizione del Corano in una scuola pubblica fatta dallo Stato italiano. Credo che per essi sia la comunità islamica che deve istruire, come suo atto, l’insegnamento della parola rivelata. La proposta del cardinale Martino sembra indicare una lettura molto occidentale del mondo islamico. Si pensa che l’atteggiamento proprio di accoglimento sia dare ai musulmani la stessa cosa che ai cristiani. Non penso quindi che la via di una parificazione di fatto dell’insegnamento islamico a quello cristiano sia percorribile. E forse questo fatto urterebbe anche la sensibilità di molte famiglie cristiane, che prenderebbero mal volentieri una parificazione di fatto tra l’insegnamento cattolico e quello islamico.
Siamo però in una condizione di transizione in cui l’idea di un’assimilazione culturale sembra difficile; e, d’altro lato, l’affermazione dell’identità islamica comporta una differenza che tocca non soltanto le forme esteriori, ma la figura stessa della nostra convivenza. Certamente il formarsi di comunità musulmane all’interno di nazioni storicamente cristiane sarà un fatto che con il tempo risolverà gradualmente i problemi che esso pone. Ogni schema ha le sue difficoltà, sia quella multiculturale, sia quella integrazionista.
Resta il fatto che il pronunciamento del cardinale sembra significativo del fatto che la Chiesa cattolica preferisce il pluralismo religioso all’assenza della religione nella scuola pubblica.

Più che un problema politico italiano, l’intervento di Martino indica quindi un orientamento del Vaticano su questo tema, favorevole in ogni modo alla presenza della religione nelle sedi pubbliche, anche se questa religione non è il cristianesimo. Un punto importante che certamente richiederà ulteriori dibattiti, ma che ha un indirizzo segnato nella preferenza espressa dal cardinale per il pluralismo religioso nella scuola pubblica.

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