Corruzione, Sirchia condannato a 3 anni

Inflitta una pena superiore a quella chiesta dal Pm L’imputato: «In appello proverò la mia innocenza»

da Milano

Girolamo Sirchia ascolta il lungo preambolo della sentenza senza capire come andrà a finire, il viso segnato dalla tensione. Quando arriva la parola «condanna» gli scappa quasi un sorriso, abbassa lo sguardo, scuote il capo. Non andrà in carcere, non subirà conseguenze concrete da questa sentenza. Ma per il tribunale è colpevole, al di là di ogni ragionevole dubbio. Colpevole di corruzione, per i soldi incassati estero su estero dagli stessi colossi farmaceutici cui andavano gli appalti del Policlinico. Ed è colpevole di appropriazione indebita per avere girato sui propri conti una parte dei denari della Fondazione Il Sangue, la sua creatura, l’ente che governa il fiume di globuli rossi che i volontari versano ogni giorno all’ospedale milanese. E nei cui bilanci, secondo la sentenza di ieri, Sirchia pescava disinvoltamente.
Sono passati appena tre anni dall’avviso di garanzia che lo spodestò dalla carica di ministro della Sanità del secondo governo Berlusconi, nel febbraio 2005, e sembra passata una vita. Allora il professore prestato alla politica occupava le prime pagine dei giornali con la sua proposta rivoluzionaria, quella destinata a cambiare le abitudini di vita di un Paese: il divieto di fumo nei locali pubblici. Sembrava che dovesse scoppiare il finimondo, invece la rivoluzione venne metabolizzata in fretta. Ma Sirchia non era più lì a godersi il successo. L’inchiesta milanese sulle commistioni tra sanità e business, segnata ai suoi esordi dal suicidio del professor Francesco Mercuriali, lo aveva travolto con una serie di imputazioni che ieri il tribunale ratifica pressoché per intero, infliggendogli una condanna - tre anni - che va aldilà delle richieste della Procura. La pena è virtuale, perché tutto coperto dall’indulto; e anche la pena ulteriore che lo esclude per cinque anni dai pubblici uffici è destinata a venire risucchiata dalla prescrizione. Ma, insomma, la botta resta. E Sirchia la accusa per intero.
«Mi dispiace - è la prima reazione di Sirchia, appena i cronisti gli si affollano intorno - perché ero convinto di avere portato in aula le prove della mia innocenza, evidentemente non sono riuscito a convincere i giudici».

In aula, l’autodifesa del professore era stata appassionata, ma sul suo destino processuale hanno pesato come sassi alcuni dati di fatto: prime tra tutte, le fotocopie dei bonifici da undicimila marchi che emetteva a suo favore Immucor, il colosso di Atlanta delle apparecchiature per il sangue, e finite in prima pagina sui giornali; hanno pesato probabilmente i tentennamenti, le ripetute retromarce con cui - nei giorni roventi dell’inizio inchiesta - Sirchia affastellò le sue successive verità.
«È solo il primo grado, faremo appello» dicono i legali di Sirchia. Lui, accanto a loro, scrolla il capo. È amaro, professore, doversi affidare all’indulto e alla prescrizione? «Sì. Molto amaro».

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