Così Augusto Daolio cantava con le immagini

Dalle opere della voce dei Nomadi emerge tutta la sua spaesata e infinita malinconia

Incontrai molti anni fa, forse 30, i Nomadi a Cuba. Non c'era già più Augusto Daolio, il capo riconosciuto, ma c'era Beppe Carletti. Il gruppo suonava a Trinidad, dove avevano casa e consuetudini; io ero venuto da L'Avana per trovarli, come si insegue una leggenda. Lì incrociai gli occhi di una ragazza. Fu una intesa insistente e imprevista, e fu vista. Ritrovai la ragazza in Italia, si chiamava Clementina. Non avrei dovuto. Fui impulsivo. Avevo cominciato ad ascoltare i Nomadi da ragazzo, come è accaduto a tanti. Ero un adolescente in collegio; e loro cantavano Dio è morto, ai provocatori inizi della loro carriera. Morto o risorto, eravamo alle soglie del '68. Il mondo sarebbe cambiato. E noi con lui.

Quelle parole erano anche le mie, di un ragazzo di 15 anni. Da adulto sarei stato irriverente, avrei sfidato quel santuario. Ma nei due tempi, all'origine e in quell'incontro, Augusto Daolio era già un santo, non solo il fondatore. Sono passati troppi anni, in ogni caso, e oggi, più che la mia esperienza di quasi coetaneo, con le stesse convinzioni e le stesse aspirazioni, hanno un senso le parole del sindaco di Ferrara, Alan Fabbri, che nella sua città ha voluto onorare un mito che non ha conosciuto, com'è giusto che sia per i miti, e ci ha chiesto di celebrarlo. Scrive con grande naturalezza Alan: «Augusto Daolio è per me un mito assoluto, è la mia infanzia, la musica eterna, la voce dell'anticonformismo, sono gli anni Sessanta e Settanta, rivissuti da chi - come me - appartiene a una generazione successiva. Daolio è nel cuore e negli affetti, sono le canzoni che ti rimangono impresse dall'infanzia, quelle che accompagnano i tuoi anni più belli e che ti tornano in mente percorrendo la via Emilia o attraversando le campagne. Sono i concerti visti con mio padre, l'entusiasmo coinvolgente di tanti fans, a cui tu partecipi, da bambino, ancora incosciente ma semplicemente felice. La vita mi ha dato la fortuna di conoscere Rosanna Fantuzzi, che di Augusto fu la compagna, e di assistere, da sindaco, al concerto di Zucchero che - il 19 luglio 2021, in piazza Trento e Trieste a Ferrara - ne ha ricordato l'affetto e il genio, riproponendo alcuni suoi brani storici. Momenti indimenticabili». Vero.

Dunque il tempo e le generazioni non cambiano l'emozione e il messaggio di questo epico gruppo, e io non devo testimoniare come chi li ha conosciuti, con partecipazione e riconoscenza, ma da Presidente di una Fondazione che ha deciso di far vedere i sogni e le invenzioni artistiche di Augusto, documentati in catalogo a ritroso, dal 1992, l'anno in cui se n'è andato, al 1981, quando comincia a sognare. Un tempo breve ma intensissimo, coerente, autentico. Immagino che la scelta sia stata della moglie, Rosanna, ma il risultato è di farci scoprire un artista vero, poetico e lucido, sospeso tra la terra e il cielo, tra la luna, che occhieggia sempre, e le radici degli alberi sotto la terra. Riguardo, con sorpresa e ammirazione, incantato, questi paesaggi di un altro mondo, dove gli uomini fanno l'amore con gli alberi, i cavalli si fondono con le pietre, le piante crescono sulla testa come capelli. È una fantasia surreale, quella di Augusto, tra Delvaux e Fabrizio Clerici. Abbiamo a Ferrara simili sognatori, come Sergio Zanni, come Gianni Guidi, che forse non hanno mai incrociato lo sguardo di Augusto, ma hanno sentito l'aria degli stessi luoghi, che non sono poi luoghi, ma spazi della mente. È quello che dice lo stesso Daolio: «Spaesata e infinita malinconia per paesaggi, posti, siti, che non ho mai visto e che avrei tanto voluto vedere, in una altra età, in altri momenti, vicino o lontano. Spaesata rabbia per tutto ciò che ho conosciuto intatto o comunque originale, primordiale e che ora agonizza soffocato dall'ingordigia e dalla cupidigia. Spaesata energia che mi spinge a cercare altri luoghi della e nella memoria, sentieri di cui conosco a malapena l'inizio, labirinti vegetali che non lasciano filtrare il sole e freschi, umidi, ammorbidiscono, ingentiliscono i miei pensieri negativi. Spaesate lune, spaesati soli per spaesati cicli vissuti confusamente, in fretta, spaesati giorni fatti di emozioni e rimozioni, veri e falsi, calmi e irosi».

E lo dice per sé e per tutti. I suoi disegni sono le evocazioni di emozioni che sono dentro di noi, e che non dobbiamo faticare a riconoscere.

Augusto è andato lontano, è andato sulla luna, ma gli sarebbe bastato stare a Novellara con la stessa fantasia di un grande pittore come Lelio Orsi, evocato da Pietro Di Natale, che ha dipinto nella Rocca un padiglione di verzure con il Ratto di Ganimede. Gli amori, i desideri, le lunghe notti d'estate ritornano, e un poeta lascia interrotto il suo sogno perché lo continui un altro. Così è stato per Augusto Daolio.

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