Così il "compagno" Curzio ha trovato nell'Urss la patria della rivoluzione

Così il "compagno" Curzio ha trovato nell'Urss la patria della rivoluzione

Il volume Malaparte e la Russia (Luni, pagg. 344, euro 25; a cura di Carla Maria Giacobbe e Federico Oneta) raccoglie gli atti del primo convegno italo-russo dedicato a questo scrittore (organizzato nel novembre 2021 alla Biblioteca di via Senato a Milano). È stato un convegno importante, per la qualità dei relatori e per il variegato campo di studi in esso presente - storia, storia delle idee, letteratura, politologia - vero e proprio specchio degli interessi di Malaparte stesso, che fu di volta in volta, o contemporaneamente, un agitatore rivoluzionario e un romanziere, un giornalista e un intellettuale, uno scrittore di guerra e un chroniqueur mondano...

In questa molteplicità, la Russia rimase una costante che lo accompagnò dall'inizio alla fine, da quel Viva Caporetto! in cui la disfatta militare era letta come una sorta di Rivoluzione d'ottobre sociale e politica, uno sciopero generale delle trincee, a Il Volga nasce in Europa in cui, spogliata di ogni suggestione asiatica, l'Urss comunista appariva parte integrante, nel bene come nel male, del Vecchio continente, passando per i libri dedicati al leninismo, Intelligenza di Lenin, Il buonuomo Lenin, al trockismo di Tecnica del colpo di Stato, alla controrivoluzione bolscevica ritratta in Il ballo al Kremlino e terminando con il malinconico, perché postumo, quanto orgoglioso Io, in Russia e in Cina, dove l'apertura di credito nei confronti della Russia del disgelo e della Cina di Mao era l'estremo tentativo di uscire dall'impasse di una decadenza europea di cui Malaparte era stato testimone, attore e profeta.

Qualora ce ne fosse ancora bisogno, dal gioco incrociato degli interventi che nel volume si susseguono scompare definitivamente quella immagine, una sorta di leggenda nera a cui, ahimè, lo stesso Malaparte contribuì, non sempre suo malgrado, dello scrittore narcisista, inattendibile e arrivista, brillante sì, ma superficiale, «fabbricante di bolle di sapone terroristiche», come lo definì in una suggestiva quanto sbagliata stroncatura di La pelle Emilio Cecchi. Viene fuori, al contrario, uno scrittore che verifica le fonti, che sa avere fonti di prima mano, con solidissime basi culturali, nonché una mostruosa capacità di lavoro. Persino le invenzioni letterarie, di cui per esempio Il ballo al Kremlino è pieno, sottoposte a verifiche rimandano a una serie di calchi deformati della realtà, prestiti di dati storici, sapienti innesti personali e una capacità quasi rabdomantica di cogliere da frequentazioni minime il massimo di efficacia narrativa. D tutto questo, per fare un solo esempio, dà abbondantemente conto la parte quarta del volume, relativa fra l'altro ai rapporti fra Malaparte e Bulgakov, fra appunto Il ballo al Kremlino e Il Maestro e Margherita, romanzo, vale la pena di ricordare, che all'epoca era ancora in fieri, con il suo autore condannato al silenzio.

Il ballo al Kremlino cronologicamente si situa vent'anni dopo all'incirca di Il buonuomo Lenin, ma entrambi sono debitori del soggiorno di oltre due mesi che Malaparte, allora direttore del quotidiano torinese La Stampa, fece in Russia nel 1929. Senza impiccarsi troppo a etichette un po' usurate come «fascismo di sinistra», l'interesse del «fascista» Malaparte per «il Paese dei Soviet» era connesso all'idea che ci fossero più convergenze e più stimoli fra le nazioni «rivoluzionarie» di quanti ce ne potessero essere con le potenze liberali e borghesi della Vecchia Europa, se non altro perché era contro queste ultime che sia l'Italia, sia la Russia si erano rivoltate.

Nel fascismo malapartiano c'era un elemento di fondo antiborghese e popolare che affondava le sue radici prima nella Controriforma e poi nel mito di Garibaldi, quest'ultimo come tipico esemplare di quegli «eroi nazionali che non rappresentano le virtù e i difetti di un popolo, ma quei difetti e quelle virtù che quel popolo non possiede; non affermano, ma negano». Come riporta Antonio De Grado nel saggio giustamente intitolato «Trockij come me», per il Malaparte garibaldino «Calatafimi è un urlo, Mentana è un'ingiuria, Caprera è una protesta, l'ultima», e le sue gesta e i suoi comportamenti furono «una dichiarazione di inimicizia» nei confronti degli italiani quietisti e infidi, e «un elogio dei pochi, degli sbandati, dei senza famiglia, dei magnifici pazzi e dei santi avventurieri che lo seguivano». Nascerà anche da qui il suo interesse per l'agitatore Trockij, appunto, e, più in generale, per la Russia come «anima mundi, come terreno di coltura e fermenti affini a quelli italiani».

Senza lasciarsi distrarre dall'idea dell'«enigma russo», della «Sfinge asiatica», ovvero di un bolscevismo estraneo a ogni contaminazione europea, Malaparte non solo riconduceva Lenin, l'intellettuale piccoloborghese Lenin dalla «crudeltà platonica», all'interno del dibattito intellettuale di quest'ultima, ma riteneva che «la natura delle rivoluzioni» e quindi anche di quella leninista, «più che dipendere dalle ideologie delle minoranze rivoluzionarie partecipi intimamente della natura dei popoli». Rispetto all'individualismo occidentale, Malaparte sottolineava come i russi avessero paura «della solitudine, non sanno stare soli: dal lavoro in comune, dalla primitiva forma del mir, dall'istinto di associarsi nelle imprese, nei dolori, nelle gioie, al suicidio collettivo, alla facilità di morire insieme, in ranghi serrati sui campi di battaglia o in folla taciturna sulle piazze, gli aspetti e i modi caratteristici dell'avversione dei russi per la solitudine sono gli aspetti e i modi della loro sete di libertà e della loro rassegnazione alla schiavitù».

Sono concetti questi ripetuti lungo tutto il suo interesse per ciò che si sta verificando in Russia. In Il Volga nasce in Europa che, non dimentichiamolo, è un libro stampato all'inizio del 1943, c'è la stessa riflessione avvolta in una formula abbagliante: «Il popolo russo è come un uccello che abbia ingoiato la propria gabbia. La sua tipica smania di evasione, il suo orrore del chiuso non è che l'inversione del suo amore per la propria prigione: la smania di vomitar la prigione che ha dentro di sé, non la smania di evaderne. È di questo contrasto che è formata l'anima russa, la scirokaia nature dei russi».

E però, in quello stesso libro, che oltretutto resta esemplare per stile e contenuto, la raccolta delle sue corrispondenze dal fronte orientale russo-tedesco dove non c'è né retorica né alcuna sudditanza nei confronti dell'«alleato germanico», come nota Giuseppe Pardini nella sua introduzione a Malaparte e la Russia, c'era la consapevolezza che, qualunque fosse stato l'esito del conflitto, «ulteriori e insanabili divisioni» avrebbero contribuito a rendere «inarrestabile la caduta della vecchia civiltà europea». «L'esemplare umano creato dal comunismo - scriveva allora Malaparte - ha sempre suscitato in me un grande interesse, la macchina uomo creata da circa vent'anni di disciplina marxista, di stakanovismo, di intransigenza leninista. Mi ha colpito la violenza morale dei comunisti, la loro astrattezza, la loro indifferenza al dolore e alla morte. Il destino del popolo russo, la sorte della civiltà europea, della civiltà della razza bianca e, insieme, la sorte della rivoluzione comunista si decide qui. A Leningrado gli operai combattono e muoiono per la difesa della rivoluzione».

Con meno ideologia di Malaparte, a quella difesa Stalin aveva però fatto partecipare

le icone e i pope della Chiesa ortodossa, rispolverati per l'occasione insieme con l'idea stessa della santa patria Russia, consapevole o meno che fosse, e come poi si è dimostrato, che il comunismo passa, la Russia resta.

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