Così l'Italia abbandona chi ha rischiato la vita accanto ai nostri soldati

Solo a pochi collaboratori è stata garantita la protezione. Gli altri, grazie a cavilli, sono stati lasciati in balia dei talebani

Fausto Biloslavo«Mio fratello è stato torturato e poi barbaramente ucciso pochi mesi fa dai talebani. Lui aveva fatto l'interprete dei marines americani», racconta da Herat, Hassan Sadeqzadeh con voce distrutta dal dolore sulla linea telefonica che va e viene. Dal 2011 al 2013 il ragazzo afghano di 28 anni ha lavorato come traduttore per i soldati italiani a Camp Stone, a pochi chilometri da Herat e nella pericolosa provincia di Farah. «I talebani mi hanno minacciato via cellulare: Sappiamo che hai lavorato con gli italiani. Sei un traditore, un infedele come loro, ti ammazzeremo come abbiamo fatto con tuo fratello», spiega il giovane, che ha una moglie incinta. «Sono nel mirino perché ho aiutato i militari italiani - sottolinea Sadeqzadeh -. Ho chiamato la vostra ambasciata a Kabul, ma hanno risposto che non possono aiutarmi». Hassan chiede solo protezione per aver rischiato la vita al nostro fianco in cambio di una trentina di dollari al giorno durante la missione italiana in Afghanistan. L'ambasciata l'ha scaricato dandogli un indirizzo di posta elettronica dei nostri militari. «Ho scritto tante volte raccontando anche la tragedia di mio fratello, ma nessuno mi ha mai risposto», dichiara l'interprete afghano. I talebani hanno rapito Ahmad Hussain Sadeqzadeh assieme ad altri tre afghani vicino all'aeroporto di Herat, dove c'è ancora il nostro quartier generale a ranghi ridotti. Poi è stato torturato fino a quando non ha «confessato» di aver lavorato con gli americani e che suo fratello era interprete dei soldati italiani. In settembre l'hanno sgozzato. La vittima aveva chiesto, fin dall'11 luglio 2014, di venir inserito nel programma di visti speciali Usa «per aver rischiato la vita in molte pattuglie con i marines partecipando a operazioni critiche nella provincia di Helmand e monitorizzando le frequenze radio dei talebani». Alla richiesta aveva allegato le note di merito delle unità che lo hanno utilizzato come interprete. G. S. Benson, comandante del primo battaglione, 6° reggimento Marines, scriveva che Ahmad «ha servito eroicamente come linguista e consigliere culturale in alcuni dei più aspri combattimenti in Afghanistan». L'interprete, inascoltato, nel suo appello alla protezione aveva previsto tutto: «Penso che rimanere in questo Paese diventerà nell'immediato futuro estremamente pericoloso per la mia vita e per i membri della mia famiglia».Il fratello, Hassan Sadeqzadeh è uno dei 35 interpreti che da mesi stanno cercando di ottenere protezione dall'Italia secondo una legge del nostro Parlamento, che prevede «il trasferimento nel territorio nazionale» e sussidi per chi ha lavorato con noi e per le loro famiglie. Alcuni, per paura delle rappresaglie dei talebani, hanno già scelto la via dei trafficanti di uomini per arrivare in Italia e chiedere asilo politico. Tutti si sono trovati di fronte a un vergognoso muro di gomma o nel migliore dei casi allo scaricabarile da parte italiana, nonostante l'Italia abbia già accolto finora 55 «selezionati collaboratori» afghani e 117 familiari, secondo fonti militari. In tutto sono stati individuati 125 traduttori che hanno diritto alla protezione. Per ora le richieste dei 35 interpreti dimenticati sono state respinte perché risulta difficile stabilire la loro «affidabilità» come prevede la legge, sostiene una fonte della Difesa italiana. Alcuni sarebbero stati allontanati dai contingenti, ma non è chiaro chi e quanti siano.Uno dei presunti «inaffidabili» è Mohsen Enterzary, al fianco delle truppe speciali italiane della Task force 45 a Herat e nella provincia di Farah dal novembre 2010 al luglio 2012. Fino a quando è finito in un'imboscata assieme ai nostri militari perdendo la vista da un occhio, un orecchio e gran parte dei denti. «Non gli hanno garantito né un risarcimento, né una minima pensione» denuncia il suo amico Mohammed, nome di fantasia di un interprete che lavora ancora per noi. Peccato che la stessa Task force 45 gli avesse pure rilasciato un attestato «in riconoscimento della dedizione e del grande aiuto per il successo delle operazioni». La firma è del comandante del gruppo Alpha «Condor» a Farah, il 25 novembre 2011, con sullo sfondo foto di combattimento dei nostri corpi speciali in Afghanistan.Il «portavoce» degli interpreti dimenticati è Abbas Ahmadi, che dal 2014 si batte per ottenere un minimo di protezione. Per tre anni era «spalla a spalla» con i nostri militari nei posti più caldi da Shindad, Farah, Bala Murghab e Qal i Naw. Ahmadi è un simpatico hazara, etnia particolarmente odiata dai talebani, che mostra le foto delle sue missioni al fianco degli italiani con giubbotto antiproiettile, ma disarmato, a bordo dei blindati Lince o buttato in una tenda. «Per anni siamo stati al vostro fianco nelle operazioni più pericolose - scrive il 29 marzo a nome degli interpreti dimenticati -. Non abbandonateci qui, da soli, con la paura di venire uccisi dagli insorti». Gli accorati e ripetuti appelli inviati direttamente al ministro della Difesa a Roma oppure a Camp Arena, la nostra base in Afghanistan, non hanno quasi mai ricevuto risposta. Solo in giugno il maggiore Carlo Buono ha spedito un messaggio di posta elettronica da Herat rinviando la pratica ad altro ufficio, ma chiedendo una serie di informazioni e documenti. E mettendo le mani avanti: «Possiamo inviare la vostra richiesta al quartier generale nazionale, ma ho controllato i nomi e nessuno rientra nel contratto di lavoro diretto con la nostra amministrazione». La trentina di interpreti erano stati assunti, come altri, attraverso una società di selezione americana che ha valutato la loro affidabilità. E forse con l'innominabile obiettivo di scaricare sulla ditta Usa la carne da macello afghana in caso di ferimento o protezione. «Il risultato è che nessuno ha preso a cuore il nostro ingrato destino nonostante siamo in pericolo assieme alle famiglie, compresi anziani, donne e bambini», denuncia Ahmadi. Dalla Difesa sostengono che appena lo scorso novembre è arrivato un riscontro da Herat, che marchia un quarto dei nostri interpreti in Afghanistan come «inaffidabili». Come mai non è stato così per anni quando hanno servito le nostre unità in prima linea?«Tante volte, quando siamo finiti sotto il fuoco talebano, l'aiuto degli interpreti ci ha permesso di capire meglio la situazione e potenzialmente salvare vite umane di italiani e afghani», racconta un nostro ufficiale veterano dell'Afghanistan. Un altro graduato italiano ricorda il traduttore della nostra missione a Sorobi a sud di Kabul «che prima ha lavorato duramente con noi e poi mantenne l'incarico con i francesi. Venne sgozzato assieme a una decina di parà d'Oltralpe nella valle di Uzbin». L'ufficiale, che ha sulle spalle alcune fra le operazioni afghane più dure, sottolinea «gli episodi in cui i traduttori afghani davano una mano a evacuare un nostro ferito o passavano le cassette di munizioni quando eravamo sotto attacco». E aggiunge che «gli interpreti con le loro famiglie hanno sempre lavorato sotto latente minaccia dei talebani, ma la loro mediazione con i locali è stata fondamentale per il successo della missione».Un quarto dei nostri interpreti, considerati solo adesso presunti «inaffidabili», li abbiamo scaricati. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, quando è stata approvata la legge per la protezione nel 2014, aveva dichiarato: «Siamo un Paese serio che si fa carico delle persone che hanno lavorato per l'Italia in questi anni e che in Afghanistan proprio per aver collaborato con noi avrebbero seri problemi». Nella sua visita a Herat, prima di Natale, non ha nemmeno affrontato la questione dei 35 interpreti abbandonati.

Gli esclusi non se ne fanno una ragione: «In tv continuiamo a vedere che accogliete migliaia di rifugiati anche illegali, andando a prenderli in mare con le navi militari. E noi che abbiamo rischiato la vita per il vostro esercito non abbiamo diritto di ottenere un visto di protezione per l'Italia?».

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