Così la Meloni ha evitato la scomparsa della destra italiana

Gianfranco Fini ha rischiato di far scomparire la destra italiana: Giorgia Meloni e la "generazione Atreju" l'hanno riportata in alto

Così la Meloni ha evitato la scomparsa della destra italiana

Giorgia Meloni viene data in ascesa. Questa, per il leader di Fdi, è una stagione politica florida: un preambolo di un trionfo che sembra già scritto. Ma non è stato sempre così. Anzi, c'è stato un periodo in cui la destra italiana ha rischiato di scomparire sotto i colpi del progressismo finiano, nel senso di Gianfranco Fini.

A destra non sono mai mancate le correnti ed i punti di vista ideologici differenti, ma il leader di Alleanza Nazionale aveva sterzato in una direzione poco condivisa anche da chi oggi fa parte dell'universo di Fratelli d'Italia. Per comprendere come Giorgia Meloni abbia evitato che una storia cinquantennale scomparisse in un batter d'occhio, sotto i colpi di un'inversione tanto inaspettata quanto mai digerita dall'ambiente, bisogna tornare indietro nel tempo, e riferirsi anche al ruolo di pungolo culturale di uno dei primi movimenti guidati dall'ex ministro della Gioventù.

Azione Giovani, il movimento giovanile di An, è stata la vera palestra - una fucina - del partito odierno. Molti dei leader di Fratelli d'Italia provengono da quella esperienza giovanile. L'hanno chiamata "generazione Atreju": Giovanni Donzelli, Carlo Fidanza, Augusta Montaruli, Francesco Lollobrigida, Andrea Del Mastro Delle Vedove, Nicola Procaccini, Giorgia Meloni stessa e così via. Di nomi se ne potrebbero fare tanti. All'epoca erano militanti, oggi sono parlamentari. Senza la tradizione giovanile - le radici già poste dal Fronte della Gioventù - forse il palcoscenico politico odierno sarebbe privo di una forza capace di occupare la destra della coalizione.

La parabola disegnata per la costruzione di Fdi è stata interessata da tappe: la scissione del dicembre del 2012 - quella dal Popolo della Libertà - ha fatto parte di un percorso, che però è ben più lungo. Tutto, a ben guardare, è nato grazie alla continuità di una dialettica ideologico-valoriale, spesso contrastante Fini e le sue aperture, che è stata edificata attraverso anni di battaglie sul territorio e riflessioni svolte nelle varie sezioni, a partire dal congresso di Viterbo di Ag. Quello che, agli inizi degli anni 2000', ha sancito per la prima volta la leadership generazionale meloniana. Una leadership che non sarebbe mai più venuta meno e che avrebbe portato la destra al di là del guado finiano. Non solo: i sondaggi, che poi andranno verificati attraverso le urne, sono persino in grado di narrare una storia più impegnativa: la Meloni ed i suoi sono stati rilevati al 16.3%. A Fini, un risultato così, non è mai riuscito. La conseguenza naturale di quello che la generazione della Meloni aveva immaginato negli anni della politica giovanile è stata la fondazione della forza partitca che sta facendo dimenticare il finismo.

Le svolte progressiste di Gianfranco Fini

La destra sarebbe potuta naufragere nel centrismo indefinito e nella paccottiglia percentuale. Dalla posizione aperturista sulla fecondazione assistita al fermo "no" nei confronti di provvedimenti legislativi che potessero trovare origine in convinzioni religiose, passando dalle polemiche attorno alla presunta necessità di rievocare ai fini di una condanna ferma l'"antifascismo" pure ai giorni nostri e dalle dichiarazioni pubbliche sul da farsi per l'integrazione a pieno titolo della confessione islamica: Gianfranco Fini aveva snaturato il palinsesto politico su cui Alleanza Nazionale era stata fondata. La destra - per com'era stata conosciuta - si era smarrita. Certo, Gianfranco Fini poteva ancora rappresentare una speranza prospettica, dunque le critiche non varcavano spessissimo il piano privato all'interno di An, un partito che ha avuto qualche difficoltà ad andare alla conta interna. Salvo, non in via congressuale, la resa dei conti contemporanea al "Che fai, mi cacci?!": in quella circostanza si è palesato il fatto che Fini non avesse più il polso su tanti "colonnelli". Quelli che, di un istituzionalismo così ben disposto nei confronti della sinistra, non ne volevano sapere. Mentre Fini cercava l'imitatio di Sarkozy prima e la conversione riformista poi, l'universo meloniano elaborava idee. Unioni civili, Ru486, gestione dei fenomeni migratori: Gianfranco Fini continuava nel tempo ad esibire considerazioni poco in linea con quello che naturalmente ci si sarebbe aspettato.

La sintesi delle differenze tra Giorgia Meloni e Gianfranco Fini è tutta in un virgolettato pronunciato proprio dall'ex vicepresidente della Camera: "Io con Matteo Salvini come Gianfranco Fini con Silvio Berlusconi? Lo considero un paragone improprio, forzato. Quello che Fini fece fu tradire la destra. Non penso che questo si possa dire di Giorgia Meloni". Dove per "tradire la destra" si può, ed anzi si dovrebbe, intendere anche la strategia messa in atto per coadiuvare la caduta del quarto governo Berlusconi. Con tutto quello che poi ne è conseguito. Il giustizialismo, in un certo senso, ha spesso fatto parte della storia della destra italiana. Ma Fini, in quegli anni, ha oltrepassato i confini idealistici che erano stati stabiliti in anni anche complessi per chi proveniva dal Movimento sociale italiano, finendo con lo sparire politicamente, in seguito ad un'esperienza centrista da alleato con l'ex premier Mario Monti, che veniva considerato un tecnocrate dai giovani della Meloni. Futuro e Libertà per l'Italia e Scelta Civica non potevano rappresentare le istanze di una comunità che aveva scelto da che parte stare sin dalla gioventù. La frattura con i finiani non è più stata sanata.

Il pericolo (scampato) dei mille rivoli della destra italiana

La storia della destra ha vissuto un periodo in cui la parcellizzazione sembrava farla da padrona. Giorgia Meloni non si è dovuta confrontare soltanto con le divagazioni sul tema dell'uomo che Giorgio Almirante aveva scelto come suo delfino, ma anche con il pericolo che un partito solo non fosse in grado di raggruppare tutti coloro che, durante il "regno" di Fini, avevano fatto parte di una classe dirigente finita anche tra gli scranni del governo grazie ad un'intuizione. Quella che ha portato alla coalizione di centrodestra. La possibilità che l'elettorato storico di An si dividesse - dopo la caduta dell'ultimo governo presieduto da Berlusconi - era palese. E infatti, a quanto pare, una parte di quei voti hanno virato verso il lido dell'anti-sistemico MoVimento 5 Stelle. Il Sud era una roccaforte aennina. Vecchie frizioni - quelle dovute ai correntismi di An - sarebbero potute riemergere per via della necessità di un ripensamento strutturale ex novo. Con la destra sociale - a Roma è sempre esistito un certo confronto tra il gruppo di Storace-Alemanno e quello di Rampelli-Meloni - a tentare di scalfire l'operazione "rinascita". La fondazione di Fdi è stata sostenuta soprattutto da chi aveva assunto posizioni meno oltranziste durante le esperienze all'esecutivo.

Qualche tentativo di porre dei bastoni tra le ruote c'è stato, ma la primazia della Meloni è risultata inattaccabile. E alla fine più o meno tutti hanno convenuto sulle capacità di tenere unito quello che altrimenti si sarebbe diviso. Due esempi possono valere per tutti: l'ex governatore della Regione Lazio Francesco Storace e l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno hanno provato, in momenti differenti, ad organizzare partiti che potessero - come ha poi soltanto Fratelli d'Italia ha fatto - incarnare la prosecuzione del viaggio nel sistema partitico della destra italiana. Storace oggi risulta essere iscritto a Fratelli d'Italia. L'ex ministro dell'Agricoltura ha fondato il Movimento nazionale per la sovranità (dal quale si è dimesso da presidente), ma prima ha fatto parte dell' Ufficio di presidenza di Fratelli d'Italia. Tutti, in fin dei conti, hanno dovuto ammettere, in via definitiva o in via temporaneo, che Giorgia Meloni, oltre ad essere l'unico leader donna del panorama del Belpaese, è pure l'espressione ufficiale di una dottrina politica che qualcuno (Fini) avrebbe voluto destrutturare, partendo dalle fondamenta. Ma Giorgia Meloni non è solo il "capo" della destra italiana: è anche colei che è riuscita a modernizzare la piattaforma programmatica, leggendo ed interpretando prima degli altri quello che sarebbe successo di lì a poco.

La nascita di Fratelli d'Italia e la piattaforma conservatrice

In principio fu il conservatorismo: quello che in Italia ha sempre faticato a trovare dimora. Dall'appartenenza al gruppo parlamentare europeo dell'Ecr alla presenza - unica nel suo genere - al Cpac dei conservatori americani: Giorgia Meloni ha costruito un asse col fronte conservatore occidentale, dovendo però anche guardare all'evoluzione della causa sovranista. La sensazione è che quella meloniana sia una sintesi tra il conservatorismo (dottrina politica cristallizzata ma mai cavalcata in Italia con troppa convinzione) ed il sovranismo, che ha invece fatto la sua comparsa in Europa più o meno in concomitanza con il 2016, l'anno della vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane e del tentativo di Marine Le Pen di scalare l'Eliseo. Non che il sovranismo non esistesse prima - la destra in realtà è sempre stata sovranista, basti pensare a quella "Nuova" di Alain de Benoist e Marco Tarchi - , ma è nel 2016 che l'idea di una patria sovrana è riuscita ad ottenere, pur con tutte le difficoltà del caso, una legittimità nel dibattito politico continentale. Giorgia Meloni non ha mai abbandonato il conservatorismo, ma nel corso del tempo ha aggiustato il tiro. Utilizzando un frase del compianto Roberto Gervaso, si direbbe che "il conservatore crede in quello che è; il progressista in quello che vorrebbe essere". E Giorgia Meloni ha creduto in quello che è sempre stata. Non si può parlare di Fratelli d'Italia, infine, senza citare anche Guido Crosetto ed Ignazio La Russa: l'apporto di entrambi fu decisivo per la realizzazione di un esperimento che non sarebbe rimasto tale.

Il sovranismo meloniano

"Il sovranismo prevede alcune cose precise: la difesa dei confini, della sovranità, della famiglia, dello stato nazionale, della identità". In questa frase, che la Meloni ha rilasciato a La Verità nel 2018, c'è tutto quello che c'è da dire su come l'ex esponente di An concepisca il sovranismo. Non tutti i sovranismi sono uguali. Quello della Meloni, a titolo esemplificativo, si distingue per essere intransigente in bioetica, con l'adesione ai principi che i cattolici individuano nel diritto naturale. Il sovranismo meloniano non è laicista come il lepenismo. Il sovranismo meloniano non è neppure economicistico come quello di certi libertari statunitensi. Il paradigma identitario è riassumibile con quel "Dio, patria e famiglia", che può essere declinato in più modi. I liberal-democratici, con Carlo Calenda in testa, tendono a disprezzare i toni "da bar" che la Meloni utilizzerebbe. Ecco, anche nella narrativa meloniana, c'è spazio per quella contrapposizione tra l'alto dell'élite ed il basso del popolo che tanto ha mosso in termini di consenso nel corso degli ultimi appuntamenti elettorali. Le parole chiave sono molte: comunitarismo, identitarismo, autonomia economica.

Ma Meloni prosegue convinta sulla sua direttrice: a destra, intesa nel senso politologico italiano (la Lega di Salvini è un'altra storia), e negli ultimi dieci anni, non si è presentato nessuno che potesse dire di avere una marcia in più, qualcosa di diverso da dire, un attitudine per poter fare da raccordo e summa tra le varie anime.

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