
Nell'album delle fotografie del Commendator Angelo Rizzoli figura uno scatto che lo ritrae mentre abbraccia e dà un bacio sulla guancia a Oriana Fallaci a un party probabilmente tenutosi alla Terrazza Martini o sul ponte del suo panfilo di lusso, il Sereno. Alle loro spalle si intravede Sergio Pautasso, mio padre, che abbozza un sorriso in quel momento di festa.
Incrociai per la prima volta lo sguardo della Fallaci alla Libreria Rizzoli a Milano alla presentazione di un libro. Era la primavera del 1977 e io avevo 8 anni. Quando stavo per uscire dalle porte a vetri in Galleria Vittorio Emanuele, all'improvviso sentii una mano riportarmi indietro. Fuori stava passando un corteo coloratissimo di giovani vestiti e truccati da Pellerossa: erano gli Indiani Metropolitani, scoprii anni dopo. Inseguiti dalla Celere, uno di loro si fermò e lanciò sul pavimento una marea di caramelle e biglie nel tentativo di rallentare la corsa dei celerini. Quando mi voltai per capire chi mi avesse trattenuto vidi la Fallaci di fronte alla porta: in una mano teneva un'immancabile sigaretta e con l'altra, portata all'altezza del viso, mi faceva cenno con un dito che non potevo uscire. Mi guardava fisso negli occhi muovendo ritmicamente il dito con un gesto ripetitivo che mi tornò in mente quando per la prima volta vidi esposto l'Oggetto da distruggere del dadaista Man Ray, ready-made costituito da un metronomo con un braccio che oscilla ritmicamente al quale è incollata l'immagine di un occhio aperto.
Oriana la rividi poco tempo dopo a casa nostra. Il suo arrivo fu preceduto da un lungo preparativo: in salotto sul fratino destinato a ospitare al desco 8 persone, mio padre, che era il suo editor rizzoliano, aveva predisposto le bozze di un libro che credo fosse Un uomo. Per lei, Pautasso era un "compagno molto indispensabile" alla stesura di quel romanzo dedicato a Aléxandros, detto Alekos, Panagulis, l'uomo che aveva "amato di più nella sua vita", morto in circostanze misteriose, probabilmente assassinato per ordine dei Colonelli greci. Come scrisse nelle lettere che spedì negli anni Settanta, Oriana aveva affibbiato al suo editor-"compagno" nell'impresa un compito complesso: doveva essere "la sua radio di bordo per tenere la rotta" della scrittura, senza allarmarsi per gli "errori", le "incompletezze o incertezze". Nelle lettere trasmetteva tutte le sue paure più recondite e a Pautasso chiedeva di non farla "cadere nel panico". Lei voleva essere rassicurata perché era considerata una giornalista, o così faceva credere al Commendator Rizzoli: "Le ragioni per cui non ho mai scritto nulla di veramente bello, a parte Lettera a un bambino mai nato che è discreto, sono che non ho mai potuto dedicarmi in pace alla stesura di un libro. Ho sempre pubblicato libri scribacchiandoli tra viaggi ed articoli. Solo per la Lettera mi presi un po' di tempo e il risultato fu subito buono, ma per scrivere una cosa bella, devo aver tempo".
Quel pomeriggio la correzione delle bozze nel salotto di casa Pautasso si trasformò in una discussione interminabile, in una specie di balletto attorno al tavolo ricoperto di carte al quale io assistetti relegato in corridoio, intento a giocare con un camion dei pompieri americano che mi aveva regalato Oriana per impedirmi di disturbare. Ricordo che dopo quel pomeriggio passato a disquisire di poesie, correzioni e revisioni, rividi altre due volte Oriana. La prima fu all'american bar del lussuoso Hotel Gallia, poi all'elegante Hotel Principe di Savoia, Quando arrivammo al Principe di Savoia vidi Oriana tesa, nervosa come non mai e si era pure accorta che non aveva con sé nessun giocattolo con cui potermi distrarre. Mi arrangiai: su di un tavolino a parte improvvisai una battaglia in pieno stile Star Wars tra piattini, tazze di caffè, cucchiaini e una coppa da gelato d'argento che avevo trasformato in astronave. Passai ore con quell'improbabile navicella spaziale, e al momento di andare via, Oriana, con la complicità del Maître d'Hotel, me la fece portare a casa.
Come emerge dai loro incontri e dalle lettere che si scambiavano, molte discussioni con mio padre vertevano sulla natura dei libri ma anche sui rapporti che Oriana intratteneva con la casa editrice e che definiva "salariali". Per Lettera a un bambino mai nato Oriana aveva combattuto fino all'ultimo centesimo, quando i centesimi non esistevano, come ho scoperto nel contratto che mio padre aveva rivisto e custodito tra le sue carte. Ma ciò che importava a Oriana era scrivere, raccontare e anche raccontarsi. Lei sosteneva che i Rizzoli non amassero davvero la letteratura: "Non ne hanno rispetto alcuno, non gliene importa niente", scrisse amareggiata a Pautasso, diventato Direttore Letterario della casa editrice, per aggiungere in seguito che amavano "i giornali e basta, poi il cinema" a meno che non avessero a che fare con i best-seller, come lo diventarono i suoi libri. E Oriana, per non essere considerata soltanto "una gallina dalle uova d'oro" ma uno "scrittore vero", si era affidata all'"amico letterato" Pautasso che, nonostante le incertezze manifestate in occasione della revisione di Lettera a un bambino mai nato, in quanto non lo reputava un romanzo tout court, si era distinto per le sue doti di consigliere, suggerendo modifiche e quant'altro potesse agevolarne la lettura e renderlo privo di certe esasperazioni polemiche. In verità Oriana aveva capito che Pautasso si era accorto che il monologo di una donna che aspetta un figlio, e affronta la situazione come se fosse una scelta che comporta anche l'ipotesi di sacrificare una vita che tale ancora non era, nascondeva un segreto. Lei glielo scrisse in una lettera, rimasta inedita, datata 16 luglio 1978 vergata sulla carta intestata della Rizzoli Corporation: "Tu non capisti Lettera a un bambino mai nato. Dicesti che non era un romanzo!". Adesso dal suo diario emerge che Pautasso invece aveva ragione.
Oriana comprese che la scrittura quella volta l'aveva tradita, e per questo in un'altra missiva scrisse al suo "complice": "È straordinario che proprio tu, l'unica persona che sappia tutto di me negli ultimi sedici mesi, tutto o quasi tutto, quasi l'intera serie delle maledizioni che si sono abbattute su di me, è straordinario che proprio tu (senza volerlo, senza saperlo, lo so) non abbia capito questo di me", ma poi volle concludere con una frase ironica che sembrò riportare la pace tra i due: "Ciao, grazie. Il foie gras era ottimo". Questo era lo spirito della vera Fallaci perché, lei era inimitabile, anche ironica in tutta la sua toscanità, soprattutto combattiva fino all'ultimo, così come io la ricordo.