Così Virgilio gettò con l'"Eneide" le fondamenta della cultura italiana

Il grande poeta latino influenzando Dante ha modellato il nostro immaginario

Così Virgilio gettò con l'"Eneide" le fondamenta della cultura italiana

Un libro è sempre un viaggio, anche quando non parla di viaggi. Perché le pagine di un libro, soprattutto un grande libro, chiedono a noi lettori di essere pronti al movimento, di spostarci dal luogo in cui siamo e mettere in moto i pensieri, smuovere l'anima. Un libro ci trasferisce in ciascuno dei mondi che l'autore ha deciso di creare, e spesso sono mondi impossibili, ai quali noi crediamo senza opporre alcuna resistenza. Ci chiedono di fidarci di animali che parlano, e parlano in modo saggio, di astronavi che atterrano su pianeti misteriosi, di uomini che volano e di maghi che spostano montagne, di divinità prepotenti che si trasformano in cigno, pur di portarsi a letto una fanciulla. Ciò che è sconsigliato è raccontare un mondo in cui gli uomini non rubano e non fanno guerre. Sarebbe davvero troppo, nessuno ci crederebbe.

Duemila anni fa, Virgilio scrisse pensando a un viaggio, un viaggio vero, malgrado fosse imbottito di mitologia. E dal suo calamus, la penna con cui scriveva sulla pergamena, venne fuori un capolavoro.

Oggi dovremmo forse considerare l'Eneide il libro più italiano che esista, malgrado sia scritto in una lingua che non è direttamente la nostra, ma quella dei nonni dei nonni dei nostri nonni. Proprio così, un libro italiano, poiché possiamo considerarla l'opera dei padri fondatori, la grande storia di chi poi avrebbe creato Roma e dunque piantato le nostre radici più profonde. Quanto Virgilio fosse il precursore della letteratura italiana fu Dante il primo a capirlo. Ora, sappiamo bene tutti che Dante si era attribuito il compito di fondare la nostra lingua, non a caso assunse proprio Virgilio come suo accompagnatore quando si preparò ad affrontare un viaggio. Vedete che c'è sempre un viaggio? E il loro non era affatto semplice, c'era da affrontare una lunga trasferta verso l'aldilà. È un argomento che Virgilio conosce bene, perché quando scrive l'Eneide anche lui si spinge fino all'aldilà. La sua opera racconta il viaggio di Enea, leggendario eroe troiano, e dalla caduta di Troia giunge fino alla fondazione di Lavinium, la città antenata di Roma. Molti ricorderanno che Enea scappa da Troia in fiamme con il padre Anchise e il figlio Ascanio, affronta tempeste e numerose avventure. Giunge a Cartagine, dove è accolto dalla regina Didone. Tra i due nasce immediatamente un amore, ma Enea è lì spinto dal fato e dagli dei, non per rammollirsi e abbandonarsi ai piaceri, per questo lascia improvvisamente la città. Didone non accetta quell'addio e disperata si suicida, ma prima lancia imprecazioni e maledizioni all'indirizzo dei Troiani.

Ed ecco che si arriva agli inferi. Grazie alla guida della Sibilla, Enea si avventura giù nell'Ade, poiché ha in mente di incontrare l'ombra di Anchise. Sì, perché nel corso del viaggio suo padre ha perso la vita, è accaduto durante la sosta dei Troiani in Sicilia, poco prima che Enea raggiungesse l'Italia. La sua morte avviene a Drepano, la località che oggi chiamiamo Trapani, ed è qui che viene sepolto, precisamente sul monte Eryx. Enea riesce in effetti a incontrare l'ombra di suo padre, il quale profetizza il futuro glorioso di Roma e parla al figlio di coloro che discenderanno da Ascanio. Tra questi, annuncia soprattutto i nomi di Romolo e di Augusto.

Una volta sbarcato nel Lazio, alla foce del Tevere, con le poche navi sopravvissute alle varie disavventure, Enea incontra il re Latino, che gli offre ospitalità. Ma c'è un ostacolo di nome Turno, è il re dei Rutuli e soprattutto sarebbe, almeno fino a quel momento, il promesso sposo di Lavinia, la figlia di Latino. A Turno non piace Enea, e meno ancora gli piace che Latino offra al nuovo arrivato la mano di sua figlia, per questo è deciso a impedirgli il soggiorno laziale. Puntualissima, scoppia quindi la guerra fra Troiani e Rutuli, nel corso della quale perirà il giovane Pallante, figlio del re degli Arcadi e alleato di Enea, e moriranno pure i giovanissimi Eurialo e Niso, protagonisti di un episodio commovente rimasto celebre, in cui l'uno cade sul corpo dell'altro mentre cercano di raggiungere Enea per avvertirlo di un assalto dell'esercito nemico. I due schieramenti proveranno anche a stipulare una tregua, ma il tentativo di evitare che la guerra vada avanti fallisce, Enea e Turno si affrontano in un duello che è il finale romanzesco e inevitabile del conflitto. Enea resta ferito, ma riesce ugualmente ad abbattere e uccidere Turno. Sta dunque compiendosi la prima parte di quel destino voluto dagli dei che Enea è chiamato a realizzare. L'eroe sposa Lavinia e fonda Lavinium, segnando così l'inizio della stirpe i cui discendenti saranno artefici della nascita di Roma.

Forse nessuna opera vale solo per la storia che racconta, in ciascuna si nasconde uno scopo, un proposito spesso invisibile che l'autore lega alla vicenda raccontata nel libro. L'Eneide è sicuramente il poema destinato a celebrare ciò che i Romani chiamavano pietas, cioè la devozione agli dei e alla patria, ma soprattutto deve magnificare quel che sono il Fato e la missione storica di Roma. Il motivo è chiaramente la legittimazione più alta del potere di Augusto, che fu imperatore proprio negli anni in cui Virgilio realizzava il suo capolavoro. Andrebbe aggiunto, e pochi lo ricordano, che in realtà l'Eneide è un'opera incompiuta. Virgilio morì prima di averla definitivamente completata, e anzi, quando ebbe sentore della sua fine, chiese ai suoi due amici Vario Rufo e Plozio Tucca di buttarla nel fuoco e distruggerla. Aveva da scrivere ancora 58 versi, che non riuscì a concludere, ed era tra l'altro ossessionato dall'idea che un poema non perfettamente revisionato avrebbe rovinato la sua reputazione di artista. Una volta morto Virgilio, Vario Rufo e Plozio Tucca lessero il capolavoro, si guardarono negli occhi e decisero di tradire la richiesta del loro vecchio amico, quei versi erano sublimi e sarebbe stato un crimine lasciare che finissero nell'oblio. Fecero anzi in modo che il poema giungesse al più presto nelle mani di Augusto. Dritto com'era, l'imperatore si accorse immediatamente che in quelle pagine c'era la sua glorificazione, la grande occasione per raggiungere l'immortalità grazie alla letteratura. E ordinò che l'Eneide fosse pubblicata appena possibile. Non poteva andare in modo diverso.

Se il capolavoro virgiliano è arrivato fino a noi, lo dobbiamo certamente ad Augusto, e forse lo dobbiamo più alla sua vanità che alla capacità di apprezzare la letteratura. Dobbiamo farci i conti con la vanità, in particolare quando parliamo del potere e quando in ballo ci sono i grandi leader.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica