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"Covid e nipoti una svolta. Ora scrivo fiabe per sognare"

Il comico lanciato da "Zelig" e "Maurizio Costanzo Show" ha detto basta alle interviste ironiche e scoperto con un libro la sua vena poetica

"Covid e nipoti una svolta. Ora scrivo fiabe per sognare"

Macché Wikipedia, i segreti di Dario Vergassola, 64 anni, professione comico, li conosce solo «Gigipedia»: l'immaginario barista - così ribattezzato perché sa tutto di tutti - del concretissimo bistrot spezzino dove Dario si è fatto uomo.

Gigipedia narra che la fortunata carriera umoristica di quel suo cliente bruttarello forte ma simpatico assai, cominciò con un'intuizione rivoluzionaria: fare interviste dove contavano solo le domande; dovevano essere queste a far scattare la risata, le risposte erano invece superflue come orecchini di perle su una spogliarellista. Vergassola ancora oggi denuda le sue «vittime» con la forza spiazzante di una battuta, chiusa dal ricciolo scapigliato del punto interrogativo.

Il faccia a faccia d'esordio che aprì la felice serie dei quesiti imbarazzanti ebbe come cavia Simona Ventura: erano i tempi preistorici del primo «Zelig» e il giovane Vergassola - che all'epoca faceva ancora il manovale all'Arsenale di La Spezia guadagnando 850mila lire mensili - chiese a una Ventura in erba: «Simona, ti ricordi la prima volta che hai fatto sesso?», e lei: «Sì», e lui: «In quanti eravate?». Pubblico scarso, ma in sala ci fu un boato.

Vergassola capì allora che le «domande improbabili» potevano essere un filone vincente. Dario ha talento, scrive bene, sprizza originalità e fantasia. In più ha il pregio di non montarsi la testa. Non a caso nei primi 16 anni di carriera cabarettistica si guarda bene dall'abbandonare il lavoro da operaio. Hai visto mai che il «sogno artistico» si sfaldi come l'amata focaccia genovese imbevuta nel caffellatte servito al bancone del bar di Gigipedia? Lo stipendio all'Arsenale sarà pure piccolo, ma è sicuro. Meglio rimanere con i piedi per terra.

Intanto - tra crisi d'ansia, attacchi di panico e boccette di tranquillanti - Vergassola affina la sua tecnica di «interrogatorio» che diventa sempre più ilare non solo quando mette le mani su Ilary (Blasi), a cui chiede cinicamente: «Per tua figlia hai scelto il nome Chanel, se nasceva maschio lo chiamavi Parmacotto?». È il gatto che gioca col topo, e il gatto ovviamente si chiama Dario. Il giochetto delle domande che lasciano gli interlocutori senza risposta diventa un format collaudato che piace tanto al carnefice quanto alla vittima. Il pubblico sghignazza e gode alla vista del vip di turno messo alla berlina.

Nell'affabulatoria rete vergassolana finiscono a centinaia, famosi veri o aspiranti tali. Da Raffaella Carrà («Lei al principio della carriera ha fatto cinema, com'erano di persona i fratelli Lumière?») a Martina Colombari («Lei è anche indossatrice. Se le regalo una gonna a campana mi farebbe fare il batacchio?»); da Bianca Balti («Lei ha dichiarato che per una top model avere 30 anni è come averne 60. Da quando non fare una mazza è un lavoro usurante?») a Marcello Lippi («Accettando di allenare l'Inter, ha dichiarato: Con l'Inter voglio costruire qualcosa di importante. Si riferiva alla squadra o alla sua villa di Viareggio?»). Ma l'elenco è lunghissimo e non risparmia nessuna categoria: gente di spettacolo, politici, sportivi, imprenditori e via sfottendo.

C'è chi sostiene che, negli ultimi tempi, l'originaria verve caustica di Dario si sia un po' addolcita, stemperandosi in una soavità narrativa ben rappresentata dal suo ultimo libro fiabesco, «Storie vere di un mondo immaginario» (Baldini+Castoldi), con tanto di entusiastica prefazione firmata addirittura da Luc Jacquet, premio Oscar per «La marcia dei pinguini».

Scusi Vergassola, ma come si spiega questo innamoramento senile per le favole?

«Forse è un'evoluzione naturale, visto che ormai sono nonno di due nipotini. I bambini ti fanno perdere la testa. E un po' ti rimbecilliscono. Ma è un antidoto al pensiero della morte. E stare con loro è una sensazione meravigliosa. In questo momento sono al parco con loro, qui a La Spezia. Abbiamo tutti la mascherina, eccetto il cane. C'è pure mio padre, 88 anni, che solo pochi giorni fa è stato finalmente vaccinato. Sul fronte della prevenzione Covid anche in Liguria regna la confusione».

Lei ha messo in rete un video per denunciare i ritardi.

«Ho anche una zia novantenne e pure lei, prima di essere vaccinata, ha tribolato parecchio. Nelle stesse condizioni in tutta Italia ci sono migliaia di anziani».

Ironicamente ha consigliato loro di ritrovarsi in piazza e, nell'attesa di comunicazioni ufficiali, di farsi una tombolata. Chi completa per primo la cartella, vince una dose di AstraZeneca.

«Purtroppo c'è poco da scherzare, la situazione va sbloccata al più presto. Mi rendo conto che il problema è grave e nessuno ha la bacchetta magica. Ma non se ne può più di vivere questa specie di non-vita fatta di restrizioni».

Ha fiducia nel generale Figliuolo?

«Visto che siamo in guerra, un generale dell'esercito potrebbe essere l'uomo giusto. Ma la verità è che ci vorrebbe uno sforzo generale (nel senso di tutte le componenti sociali) che ponga al primo posto competenza ed efficienza. L'esatto contrario di ciò che abbiamo visto finora».

Ce l'ha con qualcuno in particolare?

«La politica ha le sue colpe. Ma anche la scienza è stata contraddittoria. E pure noi cittadini abbiamo le nostre responsabilità: pensare che l'emergenza fosse finita, ha rappresentato un grave errore».

Pure lei nella trappola del Covid(ically) correct che getta la colpa sugli italiani che si «permettono» di criticare il lockdown?

«Ripeto: se non remiamo tutti dalla stessa parte, non ne usciremo mai. Dividersi sul tema del coronavirus può avere solo un effetto-boomerang».

Per chi fa il suo mestiere, la tragedia Covid ha fatto da tappo alla creatività o può rappresentare una fonte di ispirazione comica?

«Inutile negarlo: questa pandemia ci sta trasformando profondamente. Ma lo spirito cazzaro non muore mai. Ed è un fattore positivo, un aiuto spirituale per superare i momenti difficili».

Qual è stato il suo momento più difficile?

«Quella volta che mi arrivò una bolletta del gas di 900mila lire, cioè 50mila lire in più del mio stipendio. Dovetti chiedere all'azienda del gas di poter pagare in due rate. Fu una scena triste. Ma non me ne vergogno».

In questo senso l'esempio dei suoi genitori è stato formativo: tanti sacrifici, pochi soldi, ma gran senso dell'ironia.

«Abbiamo vissuto in povertà, eppure non cambierei la mia infanzia per nulla al mondo. Sono orgoglioso della dignità dei miei genitori: mia madre andava a servizio nelle case borghesi e ne usciva arricchita di parole difficili di cui non sempre afferrava l'autentico significato. Mio padre si ammazzava di fatica, ma il senso dell'ironia non lo abbandonava mai. Con effetti a volte davvero irresistibili».

Faccia un esempio.

«Una volta io e papà discutevamo animatamente, quindi intervenne mamma dicendo: Quando urlate così mi fate venire un orgasmo. Gelo. Mio padre mi guardò perplesso e fece: Salutala finché ci riconosce».

Ma è vero che sua moglie, nel primo giorno «storico» del marito ospite del «Maurizio Costanzo Show», si addormentò davanti alla tv?

«Alla fine della trasmissione, la chiamai: Amore, sono andato bene?; e lei: Scusa caro, ma il programma è cominciato troppo tardi, mi è venuto sonno».

Stessa cosa nello spettacolo con lei a fianco di Giorgio Gaber.

«Mia moglie era in prima fila, ma quando la guardai mi accorsi che aveva gli occhi chiusi».

Ma la sua signora ha l'abbiocco facile?

«È una donna meravigliosa. Per me è come la moglie del tenente Colombo: non si vede mai ma è fondamentale nella sua vita. Mi fa da badante, commercialista e psichiatra. Quando mi sveglio la mattina, lei è già in piedi che lavora da tre ore».

Forse per questo la sera si addormenta prima del tempo.

«Probabile».

Mi permette una domanda in stile-Vergassola?

«Dica».

Lei sostiene che «prima di scrivere un libro bisogna almeno averne letto 200». Quando nel 2002 scrisse il libro-trash Me la darebbe?, esattamente quanti libri aveva letto?

«Pochi. E, cosa ancora più grave, dopo aver scritto Me la darebbe? nessuna me l'ha data».

Però negli anni successivi si è rifatto alla grande sia con i libri letti, sia con le donne.

«Libri sfogliati, tanti; donne spogliate, meno».

A proposito di libri, l'ultimo che ha scritto, «Storie vere di un mondo immaginario» è impreziosito da una prefazione che l'avrà mandata in brodo di giuggiole.

«Dinanzi alle frasi di Luc Jacquet, premio Oscar per La marcia dei pinguini non credevo ai miei occhi: I racconti di Dario mi hanno ispirato... hanno la profondità e l'inventiva di Pinocchio».

Complimenti.

«Ma lo sa che qualche giornalista ha pensato che questi apprezzamenti fossero opera mia e che Luc Jacquet fosse un nome di fantasia?».

Il sospetto è venuto anche a noi.

«Siete tutti come mia moglie, che sottovaluta sempre le mie capacità».

Lei ha 64 anni, alle spalle 40 anni di battute fra teatro, tv, cinema e libri. Ma un comico a che età va in pensione?

«Dipende dalle marchette che ha pagato in carriera. Io sono stato fortunato, anzi miracolato».

Si ritiene un uomo di sinistra?

«Tendenzialmente sì. Ma poi guardo la mia casa, la vedo piena di crepe e finestre rotte. E un po' mi demoralizzo».

Ma ora nel Pd è arrivato Letta, non le basta per tirarsi su?

«Zingaretti ha avuto coraggio a dire che si vergognava di un partito interessato solo alle poltrone. Letta dovrebbe essere il disinfestatore che bonifica il sistema. Speriamo bene».

Da giovane si faceva le canne?

«Sì, ma avevo paura di sentirmi male. E quindi fumavo sempre vicino a un Pronto soccorso».

Ha fatto l'«opinionista» per programmi condotti da Nicola Porro, Luca Telese, Serena Dandini e Gialappa's Band. Con chi si è trovato meglio?

«Con tutti. Anche loro sono maestri di comicità».

L'ironia è una dote importante per conquistare le donne.

«Nel mio caso è più che importante: è l'unica».

L'anno scorso ha scritto con Moni Ovadia «Se vuoi dirmi qualcosa taci. Dialogo tra un ebreo e un ligure sull'umorismo» (Ed. La nave di Teseo). Ma l'umorismo è un linguaggio con caratteristiche comuni a tutte le culture o esistono delle differenze rispetto alle peculiarità delle varie etnie?

«Le differenze ci sono, eccome. L'umorismo yiddish del popolo ebraico ad esempio è nel suo genere unico al mondo».

Woody Allen docet.

«La massima espressione».

Di sé ha scritto: «Sono cresciuto in un ambiente che è una via di mezzo tra «Amici miei» e «Il grande freddo». Ci descriva una vicenda personale in stile-«amici miei».

«Ricordo che da ragazzi, quando andavamo a rubare la frutta dagli alberi di un povero contadino, eravamo delle vere carogne: dopo il colpo prendevamo in giro pure il contadino».

Invece «il grande freddo» quando l'ha provato?

«Al funerale di un nostro fratello di scorribande. Tutti noi della compagnia ci trovammo fuori dalla chiesa. Dentro si sentivano le persone che piangevano. Noi fuori a sbellicarci dalle risate rievocando le battute di una persona cara che non avremmo più rivisto.

Ma incancellabile dai nostri cuori».

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