Roma - Un salto all’indietro di vent’anni. Così la delegazione finiana al governo (il ministro Ronchi, il viceministro Urso, i sottosegretari Menia e Buonfiglio), che oggi annunciano di abbandonare la nave, riportano l’Italia al 1990. E proprio come allora, quando il presidente del Consiglio Andreotti rimpiazzò i cinque ministri della sinistra Dc dimissionari dopo la fiducia sulla legge Mammì, Berlusconi potrebbe provvedere al rimpasto di governo senza salire al Quirinale.
Eppure Gianfranco Fini chiede al Cavaliere di dimettersi. Sapendo perfettamente che al di là dell’uscio c’è il buio. Anzi, tenebre ad alto rischio. Perché delle due ipotesi avanzate dal presidente della Camera - o meglio, dal presidente di Fli - non si vede che un solo esito: una crisi politica come da anni non c’era mai stata. Tutta da decifrare nella sua assoluta novità. Detto infatti che l’apertura formale di una crisi e la ridefinizione di un programma sotto dettatura di Futuro e libertà non è tanto diverso dal ritiro dei quattro finiani dal governo e dalla promessa di voler valutare ogni singolo provvedimento (i numeri della maggioranza sarebbero risicati, le assenze incidono e i mal di pancia possono montare anche nel Pdl dove qualcuno preferirebbe la prova di forza), non è che calcolando i rapporti di Camera e Senato si possa far finta di nulla.
Crisi sarà, insomma: imminente o prossima ventura. Ma a quel punto? Ed ecco il paradosso. Chi al momento può volere un voto ravvicinato? Berlusconi sa che il rischio di trovarsi azzoppato pur solo a Palazzo Madama, è reale. Bossi, alla finestra, ha bisogno di arrivare almeno a febbraio-marzo per varare l’agognato federalismo. Il Pd non ne vuol sapere di andare alle urne quando i sondaggi continuano a volerlo in calo. E persino Di Pietro potrebbe avere i suoi problemi, tant’è che sfida Fini a presentare una mozione di sfiducia se davvero vuol rendersi credibile.
Conviene al presidente della Camera allora andare al voto? Mica tanto. Potrebbe pur sempre trovare un’intesa con Casini, ma la diarchia è disegno che fin troppo spesso ha portato poi al tentativo di reciproco assassinio. Insomma, tranne chi è attualmente fuori dal Parlamento - come Sinistra Ecologia e Libertà, Rifondazione, i socialisti e sull’altro versante Storace - fugge al solo sentire la parola urne. Anche perché se ci si andasse, si finirebbe per votare col vecchio e deprecato «porcellum» che dona una corposa maggioranza di seggi al partito o all’intesa tra forze che prevale nel computo dei risultati della Camera.
Non è dunque un caso che Fini, lanciando il suo ultimatum a Berlusconi tenga a spiegare che non sarà possibile nessun patto a meno che «non venga cancellata la legge vergogna». Cosa che, come sa perfettamente, Berlusconi non farà mai in questo momento se non avesse solide garanzie di andare avanti.
Bersani, per superare l’impasse, ipotizza un governo tecnico. Ma i numeri non ci sono se Fini e Casini non sono disposti a fare i portatori d’acqua della sinistra.
E allora? Di chiaro c’è solo che se il presidente della Camera vuole una crisi - come hanno fatto sapere dal Pdl - può ottenerla solo attraverso un voto delle Camere che si presenta più difficile della passeggiata settembrina fatta da Berlusconi. E dopo? Si rischia di andare a singhiozzo a discapito del paese, o a una crisi al buio. Come nei peggiori capitoli della prima Repubblica di cui non si auspicava certo il ritorno. SanAs- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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