Michele Anselmi
da Roma
Se l'amico e collega Gabriele Muccino pronostica la vittoria del palestinese Paradise now, i giornali americani puntano invece sul sudafricano Il suo nome è Tsotsi di Gavin Hood, uno che s'è fatto le ossa a Hollywood. Ma lei, rilassata e sorridente dopo sei ore di sonno profondo e un massaggio ristoratore alle otto di mattina, non si sbilancia. Dal Beverly Hills hotel, Cristina Comencini dice al telefono: «Come vedo l'Oscar? Come una pallina che gira nella roulette. L'instabilità ansiogena fa parte del gioco. Credo che ognuno dei cinque film sia forte nel proprio campo. Mi piace la gara, non sono una rinunciataria, certo che vorrei vincere. Ma è già molto, più di quanto mi aspettassi, essere qui. Pensi che domani mi consegneranno pure la nomination: un premio di per sé».
«Lady Oscar» (lei continua a pensare, con una punta civettuola, che il titolo di Magazine sia un omaggio al fumetto giapponese degli anni Settanta) sta sfogliando il fitto carnet di impegni delle prossime ore. Lo chiama, giustamente, «schedule». Un tour de force in inglese. Anche se poi aggiunge, scherzando: «Sempre meglio di lavorare». Conferenze stampa, interviste, fotografie, pranzo al consolato, cena offerta dalla Sony, un passaggio al festival diretto da Pascal Vicedomini, un cocktail con i tre candidati italiani, un «Simposio» in pubblico, al Kodak Theatre, insieme ai registi dei quattro film concorrenti. Più la prova dell'abito per la cerimonia. Non più un Prada minimalista, di color blu scuro, probabilmente un Armani: «Ma non scriverlo, se no qui mi saltano tutti addosso».
La bella, pugnace e giovanile nonna cinquantenne teme tutti e nessuno. «Vivo sensazioni altalenanti. Un attimo penso: è l'anno dei film politici, il mio non ha chance. Poi, però, osservo le reazioni del pubblico americano a La bestia nel cuore e capisco che colpisce nel profondo, turba e commuove. Infine arriva Tsotsi e mi dico: ecco l'Africa che non si vede mai al cinema. La storia del delinquentello redento è forte, a suo modo universale, forse un po' tagliata con l'accetta. Magari piacerà più degli altri a questi misteriosi giurati della categoria miglior film straniero». Misteriosi? «Sì. Nessuno sa come sono fatti, chi sono, guai ad avvicinarli. Le nuove regole sono inflessibili. Ma, in fondo, è il bello di questo premio. Il meccanismo di selezione è davvero trasparente. Per dirla tutta, mi sa che qui piace quel che piace. E basta».
A Los Angeles è approdata l'altro ieri, accompagnata dal marito e produttore Riccardo Tozzi. Lui è soddisfatto della «prodigiosa rimonta», ma non si fa troppe illusioni. Il toto premi dà in vantaggio Tsotsi, già uscito nelle sale statunitensi (da domani in quelle italiane), mentre La bestia nel cuore debutta oltreoceano il 17 marzo, fuori tempo massimo. Tra l'altro la vittoria del film sudafricano (per quanto prodotto da un americano) permette di cogliere due piccioni con una fava: da un lato, si segnala una cinematografia emergente; dall'altro, si lascia a terra il controverso Paradise now sui kamikaze palestinesi. «Vedremo che cosa succederà domenica. Io sono fiduciosa», confessa la Comencini, che sembra muoversi tra i tappeti del mitico hotel e le Limousine messe a disposizione dall'Academy come una bambina golosa e osservatrice. «Certo che mi piace stare qui. Le emozioni vanno vissute fino in fondo, senza snobismo. Non sono mai rimasta sveglia per seguire lo show televisivo, preferivo registrarlo. Ma stavolta sono in ballo io. Insieme a un film che mi ha dato molto». Aggiunge di non voler preparare, «per scaramanzia», nessun discorsetto. «Se sarà il caso, improvviserò», cinguetta. In quel caso, c'è da giurarci, dedicherà la statuetta al padre Luigi, immobilizzato e silenzioso da anni, dal quale ha eredito il piacere di tenere insieme qualità d'autore e grande pubblico. «Puoi sempre perdere uno dei due pezzi per strada, e ogni volta bisogna ricominciare da capo».
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