Crolla il teorema Woodcock «Lavitola non va arrestato»

Crolla il teorema Woodcock «Lavitola non va arrestato»

Simone Di Meo

Dopo Tarantini, anche Valter Lavitola non va arrestato. La procura di Bari smonta l’ipotesi di induzione alla falsa testimonianza a carico dell’ex editore de l'Avanti! e chiede al gip la revoca della misura cautelare (che avrebbe comunque perso efficacia, se non confermata, il 16 ottobre). I magistrati pugliesi hanno impiegato poco più di due settimane per demolire la ricostruzione accusatoria prospettata dal tribunale del Riesame di Napoli che, a sua volta, aveva azzerato l’inchiesta sulla presunta estorsione a carico di Silvio Berlusconi condotta dai pm vesuviani Woodcock, Curcio e Piscitelli.
Lavitola, dunque, resta indagato a piede libero, mancando i gravi indizi di colpevolezza a suo carico. Il ragionamento del procuratore aggiunto barese Pasquale Drago, affidato a una memoria di 10 dieci pagine consegnate al gip Sergio Di Paola, si basa sul presupposto fondamentale che non c’è alcuna prova concreta a sostegno dell’accusa di induzione alla falsa testimonianza nei confronti di Lavitola. Niente di rilevante. Eppure i giudici di Napoli, su sollecitazione dei pm di Lepore, in extremis l’avevano messa giù in un modo diverso. E cioè che l’ex editore avrebbe pagato Gianpaolo Tarantini, per conto del presidente del Consiglio, perché mentisse davanti all’autorità giudiziaria sulle serate a Palazzo Grazioli, su cui era aperto un procedimento penale. Una tesi affascinante forse, ma evidentemente non condivisa da una toga esperta come Drago, che ha ritenuto doveroso approfondire esattamente come si è svolta la vicenda relativa alla consegna del denaro da parte del premier a Tarantini, proprio per il tramite di Lavitola. Finora, scrive il magistrato inquirente pugliese, «nessuno è riuscito a capire esattamente come si sono svolti i fatti». Una valutazione che suona come una solenne bocciatura non solo delle (presunte) nuove certezze dei pm che in extremis avevano cambiato idea e ipotesi di reato di fronte al Riesame, ma del Riesame stesso che aveva recepito il «ripensamento» trasferendo il fascicolo dal capoluogo campano a quello pugliese, cambiando il profilo d’accusa da estorsione a induzione alla falsa testimonianza. Ma anche (e soprattutto) di quelle della procura partenopea che su Lavitola, Tarantini e la «parte offesa» Berlusconi ha indagato - pur non avendone titolo, come poi riconosciuto sia dal gip Primavera sia dallo stesso Riesame - su un reato che non esiste (visto che l’accusa di estorsione a Napoli è stata cancellata) e che, per questo reato, ha addirittura chiesto e ottenuto tre ordini di custodia cautelare in carcere (Lavitola, Tarantini e sua moglie, Angela Devenuto).
Nel suo provvedimento, il procuratore Drago è poi tornato ad affrontare la questione della competenza territoriale da parte della procura di Bari, rimandandone l’approfondimento al termine delle indagini. Va da sé che, avendo l’ufficio giudiziario pugliese ridimensionato il nuovo filone investigativo, anche la posizione di Silvio Berlusconi (che, per il Riesame partenopeo, sarebbe il «mandante» dell’induzione alla falsa testimonianza ai danni di Tarantini) cambia radicalmente: se mancano le prove a carico del presunto intermediario, cioè Lavitola, quali potrebbero essere infatti quelle a carico dell’altrettanto presunto ideatore del piano? Tutto ciò accade mentre a Roma resta il fascicolo residuale sui supposti ricatti al presidente del Consiglio, che si sarebbero consumati tra giugno e luglio scorsi con la consegna, da parte di Berlusconi, di somme di denaro a Gianpi e a sua moglie Nicla. Gesti di «liberalità», li ha definiti il Cavaliere in una memoria scritta inviata ai pm di Napoli, nati dal desiderio di aiutare una famiglia travolta da una gravissima crisi finanziaria (successiva all’arresto di Tarantini) e di offrire al manager pugliese la possibilità di rimettersi in carreggiata avviando un’attività imprenditoriale all’estero. Nessuna estorsione, ma un «aiuto» come lo definì il Cav parlando con Lavitola nella famosa intercettazione pubblicata da l’Espresso, coperta dal segreto e strenuamente negata dai pm agli avvocati di Tarantini salvo ricomparire all’improvviso fra migliaia di altri atti depositati. A questo scopo sarebbero stati stanziati i famosi 500mila euro di cui gli indagati parlano nelle telefonate intercettate a Napoli e ora agli atti del procedimento aperto a Roma.


Chi, invece, proprio non riesce a rassegnarsi all’idea di aver perso il fascicolo, è il procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore che ancora ieri sera dichiarava: «Mano a mano che andiamo avanti mi convinco sempre di più che il criterio da noi adottato sulla competenza territoriale dell'inchiesta sui soldi erogati a Tarantini e Lavitola era il più giusto. Ora infatti l’inchiesta si è sdoppiata metà a Roma e metà a Bari. E il suo futuro appare incerto». Come se gip e Riesame di Napoli, procuratore aggiunto di Bari, non contassero nulla.

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