
Un delitto premeditato, ma senza un vero movente. Che affonda le radici in un "malessere che si era aggravato negli ultimi tempi", nel sentirsi "diverso" e "distante" a causa di alcuni "peculiari interessi e pensieri astratti" e in un obiettivo folle quanto, nel suo modo di vedere, concreto: "essere immortale". Senza vincoli, neanche familiari, grazie a un distacco anticipato da un percorso ben definito. Le motivazioni della condanna a vent'anni di carcere di un ragazzo di 19 anni, all'epoca 17 enne, non bastano - se mai si riuscisse - a comprendere fino in fondo le ragioni di un gesto così efferato.
Era la notte tra il 31 agosto e l'1 settembre del 2024 quando Riccardo Chiarioni ha sterminato la sua famiglia: ha ucciso con oltre cento coltellate padre, madre e fratellino di dodici anni mentre dormivano nei loro letti. Si trovavano in una villetta di Paderno Dugnano, alle porte di Milano. Poco prima avevano festeggiato il compleanno del papà. Secondo i periti, che lo hanno giudicato semi-incapace, il suo volere essere immortale era più di un delirio, più di una ossessione vera e propria ("non lo tormenta, non vuole liberarsene"), bensì una "idea dominante, coerente con la sua visione del mondo, che coltiva, rafforza e alla fine agisce". Ma "i disturbi di personalità - scrive la giudice Paola Ghezzi del tribunale per i minorenni - possono acquisire rilevanza ove siano di consistenza, intensità e gravita tali da incidere concretamente nella capacità di intendere e di volere". In sostanza: quando ha agito, trovando una soluzione "estrema" al suo malessere, era totalmente in sé. Nel riconoscergli le attenuanti, comunque, la giudice individua nei suoi disturbi la ragione del malessere.
Mentre Chiaroni cercava di dare a tutti l'immagine del bravo ragazzo, che non dà problemi in alcun ambito della vita, le sue ricerche on line e le sue chat con un amico rivelavano, forse, la sua concezione del mondo, o quantomeno quella idea di presunta "immortalità" a cui aspirava. Nella sua vita on line, c'erano le conversazioni con un amico con messaggi comprovanti la sua inclinazione verso il fascismo, il nazismo e l'omofobia. "Mi sento minacciato se vedo un gay", scriveva on line, e anche "ma lo spirito dello zio vincerà quello comunista". E poi "plurimi riferimenti a Mussolini", tra cui il motto "punirne uno per educarne cento", riferimenti ad altri dittatori, e la foto del libro Mein Kampf. Per la giudice insomma un "manipolatore", che ha progettato gli omicidi "nei minimi dettagli", che ha manifestato "scaltrezza" nel "tendere la trappola per uccidere i genitori nella sua cameretta e non nella camera matrimoniale", dopo aver già colpito il fratellino. E che ha agito in modo "sconcertante" colpendo tutti e tre in "modo cruento", infliggendo loro "numerosissime coltellate, infierendo sui loro corpi esanimi ed anche colpendo alle spalle il padre, dopo aver dato l'impressione di volersi fermare successivamente all'aggressione al fratello ed alla madre". Nella sentenza si mette in luce anche "la condotta tenuta immediatamente dopo il delitto" orientata "ad eludere le investigazioni per garantirsi l'impunità: dapprima il piano prevedeva di far ricadere la colpa sulla madre, poi sul padre ed infine su di sé, ma soltanto dopo aver avuto la certezza, attraverso il nonno, che gli investigatori non avessero creduto alla versione fornita in prima battuta ai soccorritori".
"Il giudice pur riconoscendo un disturbo psichiatrico - il commento dell'avvocato Amedeo Rizza - cioè una idea dominante nel raggiungere il progetto dell’immortalità e la necessità di cure, ha ritenuto (visto il comportamento avuto dal minore prima durante e dopo l’omicidio) che i suoi disturbi riconosciuti non abbiano inciso nella capacità del volere".