Il richiamo dei legali a regola di equilibrio. Adesso tocca ai pm

Fin dove si può spingere un avvocato per difendere il suo cliente non solo davanti alla giustizia ma anche davanti ai tribunali - spesso più spietati - dei media e dell'opinione pubblica?

Il richiamo dei legali a regola di equilibrio. Adesso tocca ai pm
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Fin dove si può spingere un avvocato per difendere il suo cliente non solo davanti alla giustizia ma anche davanti ai tribunali - spesso più spietati - dei media e dell'opinione pubblica? Precipitarsi nell'agone delle telecamere e dei talk show serve a riabilitare la figura di un presunto innocente o a soddisfare la vanità del suo legale di fiducia? Sono domande che incombono sulla scena da quando la spettacolarizzazione dei processi ha preso il sopravvento. E alle quali ora, davanti ad alcuni recenti eccessi, l'Ordine degli avvocati di Milano (nella foto il presidente, Antonino La Lumia) risponde richiamando i suoi iscritti al «rigoroso rispetto dei criteri di equilibrio e misura, in ossequio ai generali doveri di segretezza e riservatezza».

Il comunicato non fa nomi e non cita casi, ma nel dibattito interno alla categoria che ha spinto l'Ordine professionale a intervenire le critiche e le perplessità si erano concentrate soprattutto su due casi ad alto impatto: il processo a Alessia Pifferi, la donna accusata di avere lasciato morire di stenti la propria figlia, e l'indagine per violenza carnale a carico di Leonardo Apache La Russa, figlio

del presidente del Senato. Entrambe le vicende hanno visto avvocati prodigarsi in dichiarazioni pubbliche: nel primo caso a parlare a ripetizione sono state le avvocatesse dell'imputata, nel secondo il legale che assiste la presunta vittima. La delicatezza estrema dei fatti al centro delle indagini non ha impedito ai professionisti di spiegare, raccontare, fornire valutazioni. Nel caso Pifferi, ad aggravare la situazione dal punto di vista dell'Ordine c'era la circostanza che a parlare era anche un legale, Solange Marchignoli, che da tempo non era più il difensore della donna, ma che si faceva ugualmente carico di spiegarne pubblicamente le ragioni. L'Ordine le ricorda che i doveri di riservatezza «vanno puntualmente osservati dal difensore anche quando il mandato sia stato adempiuto o comunque concluso». Solo comportamenti rigorosi, dice l'Ordine, «costituiscono un argine contro la banalizzazione dell'esperienza giudiziaria e, in ultima istanza, della Giustizia».

I legali della Pifferi e della presunta vittima di La Russa non sono certo i primi a essere inghiottiti dal circo dei media. Davanti a quella che l'Ordine definisce «la proliferazione di un'aggressiva (sub)cultura del processo mediatico, costruito parallelamente e fuori dalle aule di

Giustizia», sono molti i difensori che hanno scelto di non tirarsi indietro, e di giocare la loro parte anche davanti all'opinione pubblica. Tra loro avvocati bisognosi di notorietà ma anche veterani delle aule, con risultati delle performance mediatiche hanno oscillato tra il mediocre e l'imbarazzante: perché difendere e comunicare sono due mestieri diversi.

Eppure non si può dimenticare che la ricerca di visibilità non nasce solo dalla vanità ma da un'esigenza concreta, il bisogno di bilanciare in qualche modo lo strapotere mediatico che l'accusa esercita sin dall'inizio delle indagini, fin dal momento in cui mandati di cattura, verbali e intercettazioni finiscono in diretta in pasto all'opinione pubblica.

L'indagato, la sua storia, la sua reputazione, vengono stritolati da una macchina che trasforma i sospetti in prove. Fa bene l'Ordine a richiamare gli avvocati ai «doveri di segretezza e riservatezza». Sarebbe bene che lo stesso richiamo qualcuno lo facesse ad altre toghe.

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