
Saman è stata uccisa per la sua scelta di «vivere liberamente e in piena autonomia», oltre che «in distonia con i valori etici e il credo religioso» della sua famiglia. E non sono stati solo i genitori a volerlo, ma tutto il clan in Pakistan, che ha partecipato con «fredda lucidità» alla programmazione del delitto, come dimostrano le tante telefonate e i contenuti dei messaggi tra i parenti della 18enne presenti in Italia e quelli nel paese d'origine. Sono i giudici della Corte di assise di appello di Bologna, nelle motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo per i genitori (Shabbar Abbass e Nazia Shaheen), per i due cugini (Noman Ul Haq e Ijaz Ikram) e a 22 anni per lo zio (Danish Hasnain), a spiegare perché la decisione di ammazzare Samam la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 a Novellara, nel reggiano, è stata condivisa e premeditata: andava eliminata perché si voleva allontanare dal nucleo familiare per vivere la propria vita come diceva lei, all'occidentale.
Pur avendo pianificato l'esecuzione della figlia «per motivi culturali» e pur avendola accompagnata la notte del delitto sul luogo dell'esecuzione, per i giudici d'appello i genitori della 18enne non sono però stati gli esecutori materiali dell'omicidio. Una conclusione diversa da quella raggiunta in primo grado dalla Corte di Reggio Emilia, che aveva identificata nella madre una possibile esecutrice. Sono stati lo zio e i cugini in concorso ad uccidere Saman, strozzandola, dopo averla aspettata al buio nello stradello davanti a casa di Novellara. Sempre loro l'hanno seppellita in una fossa scavata in precedenza e poi allargata, per poi fuggire all'estero quando del delitto ancora non si sapeva nulla.
Per i giudici la madre della 18enne ha avuto un ruolo centrale nell'organizzazione e nel compimento del progetto familiare che ha portato alla morte della giovane, ma non avrebbe avuto il tempo di prendere parte all'aggressione mortale: dopo aver raggiunto il marito, come si vede dalle immagini della telecamera posta al margine dell'abitazione, tornò davanti alla casa da sola appena 53 secondi dopo, tra l'altro con un aspetto ordinato, incompatibile con una colluttazione.
Completamente estraneo al delitto il fratello della vittima, Alì Haider, che anzi i familiari consideravano un intralcio al loro progetto criminoso.
Alì, testimone chiave del processo contro i suoi stessi genitori, appare alla Corte come «un giovane ragazzo che vive in un Paese che non sente come suo, quasi esclusivamente all'interno di un microcosmo costituito dal proprio clan familiare, che improvvisamente viene privato della propria sorella, certamente un punto fermo affettivo per lui, e abbandonato dai genitori».