L'inferno bianco delle celebrità

P. Diddy travolto delle accuse: fioccano le narrazioni degli abusi di ogni genere, droghe, alcool, farmaci e molto molto altro ai suoi "White Party"

L'inferno bianco delle celebrità
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C'è un fatto che più di altri mi colpisce del caso P. Diddy (nella foto), ed è una sorta di marketing della violenza alla rovescia, una fenomenologia del carnefice giocata su opposti che ispirerebbero a chiunque pace, serenità, amicizia, o meglio ancora candore. Nella fattispecie, il candore che questo magnate dell'hip hop scimmiottava nei suoi leggendari «White parties»: nient'altro che feste orgiastiche, baccanali inaugurati fin dagli anni 90 e pieni zeppi di abusi di ogni genere, droghe, alcool, farmaci e molto molto altro. Una declinazione moderna dell'inferno in pratica, ma dove tutti vestivano di bianco. Politici, attori, cantanti, celebrità pescate da qualsiasi ambito: ognuno di loro, senza distinzione, era sottoposto a un dress code rigoroso; ognuno di loro si prostrava all'imperativo cromatico, a questo dictat tanto moraleggiante quanto falso, che restituiva un'idea atavica di verginità, che voleva far pensare in modo inequivocabile alla purezza. Oppure, diabolicamente, al suo contrario.

Ora quella stessa innocenza, un tempo così ripudiata e insozzata, così mistificata e offesa, viene invocata dal protagonista della storia: questa specie di Jay Gatsby sotto acido, che dispensava illegalità tra una coppa di champagne e l'altra, che amava regalare soprusi come fossero divertimenti.

Proprio lui, Diddy, da una cella di Brooklyn continua a ribadire di non avere colpa, anche a poche ore dall'apertura del processo che lo vede coinvolto e per cui rischia 20 anni di carcere. Intanto nuove accuse lo travolgono, più di cento solo negli ultimi giorni, nuovo nero che uccide il bianco.

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