Gli Stati Uniti annunceranno oggi l’ingresso di un nuovo Paese negli Accordi di Abramo, il quadro diplomatico che dal 2020 regola la normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi Stati a maggioranza musulmana. Lo ha dichiarato l’inviato speciale americano Steve Witkoff, spiegando che l’annuncio ufficiale sarà dato in serata ma senza rivelare il nome del Paese coinvolto.
"Torno a Washington stasera perché annunceremo che un altro Paese si unisce agli Accordi di Abramo", ha affermato Witkoff durante un intervento a Miami. Secondo fonti di stampa statunitensi e israeliane, il nuovo partner potrebbe essere il Kazakistan, il cui presidente Kassym-Jomart Tokayev è atteso alla Casa Bianca per un incontro con Donald Trump. Tuttavia, nessuna conferma ufficiale è ancora arrivata.
La dimensione multilaterale
L’annuncio arriva mentre, a New York, si discute all’ONU del ruolo degli Accordi di Abramo nella stabilità regionale. Negli ultimi mesi, i rappresentanti di Israele e degli Stati firmatari hanno più volte sottolineato come la normalizzazione dei rapporti diplomatici stia diventando una piattaforma di cooperazione economica e tecnologica, ma anche di influenza politica. Washington intende ora ampliare quella rete oltre il Medio Oriente tradizionale, coinvolgendo Paesi che possano fungere da ponte tra mondi diversi: il Golfo, l’Asia Centrale, il Caucaso e l’Africa nord-orientale.
Il riferimento all’ONU non è casuale. L’amministrazione Trump ha scelto di legare la nuova adesione a un messaggio multilaterale di stabilità, come risposta alle crescenti tensioni in Medio Oriente e alle richieste internazionali di rilancio del processo di pace israelo-palestinese. Durante le ultime settimane, vari Paesi membri del Consiglio di Sicurezza hanno chiesto che ogni espansione degli Accordi di Abramo includa anche misure concrete a favore della soluzione “a due Stati”.
Intanto, il progetto di risoluzione per Gaza, presentato dagli Usa al consiglio di sicurezza Onu e visionato da Reuters, autorizzerebbe un'amministrazione transitoria a istituire una Forza Internazionale di Stabilizzazione temporanea di circa 20 mila soldati, che potrebbe "usare tutte le misure necessarie" — leggasi uso della forza — per portare a termine il proprio mandato.
L’espansione come strategia
Gli Accordi di Abramo, nati nel 2020 con la mediazione americana tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e successivamente estesi a Marocco e Sudan, hanno rappresentato una delle più significative iniziative diplomatiche statunitensi dell’ultimo decennio. L’eventuale ingresso di un Paese centroasiatico segnerebbe un’evoluzione del progetto: da strumento di riconciliazione regionale a piattaforma geopolitica capace di ridefinire gli allineamenti post-sovietici.
Per Washington, l’operazione risponde a una duplice logica: da un lato, proiettare l’influenza americana in un’area dove Russia e Cina competono per il controllo economico ed energetico; dall’altro, rilanciare l’immagine di una diplomazia “attiva” capace di produrre risultati tangibili.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha riportato gli Accordi di Abramo al centro della sua agenda internazionale, trasformandoli in un simbolo di continuità rispetto alla sua prima amministrazione e in una leva per rinsaldare i rapporti con Israele e con i partner arabi moderati.
Le incognite
Resta tuttavia aperta la questione del significato politico di questa nuova adesione. Non è chiaro se l’accordo preveda forme di cooperazione militare, apertura di ambasciate o semplici dichiarazioni di principio. In un contesto globale segnato da conflitti e rivalità energetiche, il rischio è che gli Accordi si trasformino da strumento di pace a piattaforma di contenimento, con effetti imprevedibili sulle relazioni con Iran, Russia e Cina.
L’ONU osserva con prudenza. Molti diplomatici sottolineano che, pur favorendo la stabilità tra Israele e alcuni Paesi musulmani, gli Accordi di Abramo non hanno finora prodotto progressi significativi sul fronte palestinese.
E se la nuova adesione verrà salutata come un successo diplomatico per Washington e Gerusalemme, resta il dubbio che la pace in Medio Oriente, ancora una volta, venga perseguita più attraverso geometrie di potere che attraverso un reale processo negoziato.