
Dietro la deflagrazione che ha spazzato via tre carabinieri durante lo sfratto di un casolare rurale, si nasconde una storia che si protrae da mesi, anzi da anni, fatta di debiti, sfratti, tensioni e gesti estremi. I responsabili dell’esplosione sarebbero Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi, agricoltori e allevatori, già coinvolti in almeno due precedenti episodi analoghi: nell’ottobre e nel novembre del 2024. Allora, la stessa dinamica - la saturazione dell’abitazione con gas - aveva rischiato di trasformarsi in tragedia, ma tutto si era risolto per il meglio grazie alla mediazione delle forze dell’ordine.
I precedenti che avrebbero dovuto allertare
Nel ottobre 2024, l’ufficiale giudiziario, incaricato di verificare la stima dell’immobile e avviare il percorso dell’asta giudiziaria, si era recato alla cascina di via San Martino per accedere alla proprietà. All’arrivo, Dino, uno dei fratelli avrebbe aperto le valvole delle bombole di gas, saturando gli ambienti. Le forze dell’ordine intervennero, ma desistettero dall’entrare: quel precedente fu risolto grazie all’intervento dei vigili del fuoco per lo sfiato del gas e alla trattativa con i Ramponi. Successivamente, il 24 novembre 2024, il custode giudiziario, stavolta accompagnato da carabinieri, vigili del fuoco e mezzi per caricare macchinari agricoli, ritornò per completare l’esecuzione dello sfratto e il recupero dei beni aziendali. Anche in quell’occasione, Franco e Maria Luisa si opposero, salendo sul tetto dell’edificio per impedire l’accesso. Secondo i racconti dell’epoca, la tensione era tale che uno dei fratelli minacciò di darsi fuoco, spruzzandosi con liquidi infiammabili.
Il grido disperato dei fratelli Ramponi
In quei momenti, il loro appello era disperato. "Se ci tolgono la casa, siamo sotto un ponte", dichiarava Ramponi, consapevole di essere sull’orlo del baratro. Raccontava di trovarsi in una crisi economica gravissima, con ipoteche pendenti e richieste da parte della banca che lui, affermava, non avrebbe mai sottoscritto. "È stato mio fratello a firmare al mio nome… ma ci sono perizie calligrafiche che dicono che quella firma non è mia", spiegava. All’epoca, il Comune di Castel d’Azzano aveva provato a offrire un approccio assistenziale: invitare la famiglia ad un incontro con l’assistente sociale e, in prospettiva, verificare soluzioni d’alloggio temporaneo. Ma quei mesi passarono, i contenziosi si accumularono, le tensioni aumentarono.
Il copione che si ripete, solo che questa volta è diventato mortale
Oggi, durante l’operazione di sfratto, è stato ricostruito un copione tragicamente simile: i tre occupanti si sarebbero barricati nell’abitazione, saturando l’edificio di gas e disponendo bombole in più locali. All’apertura della porta d’ingresso da parte delle forze dell’ordine, la deflagrazione ha investito militari e agenti, provocando il collasso del casolare. Sono state recuperate cinque bombole, molte delle quali usate per saturare le stanze. Anche resti di molotov sono stati rinvenuti tra le macerie. Il fatto che i Ramponi fossero già noti per gesti analoghi e che, in passato, le autorità avessero potuto fronteggiare la situazione con mediazioni e precauzioni, rende tragicamente inevitabile che oggi l’evento sia sfuggito a ogni controllo istituzionale.
Memoria e domande che restano aperte
Questo dramma mette in luce con brutalità una serie di elementi che dovranno essere al centro dell’inchiesta e del dibattito pubblico.
Fino a che punto è possibile una mediazione sicura in presenza di soggetti disposti a utilizzare tecniche da guerriglia per difendere il proprio diritto alla casa? Le istituzioni - giudiziarie, forze dell’ordine, politiche e sociali - hanno disegnato strumenti adeguati per prevenire che un episodio del genere sfoci in strage? È legittimo continuare a far slittare gli sgomberi quando le tensioni sottese sono così pericolose? Il sacrificio di chi indossava una divisa per proteggere l’ordine legale non potrà essere archiviato come un "incidente", né minimizzato come semplice "evento tragico".