Delitto di Cogne: che fine ha fatto Annamaria Franzoni. La nuova vita e tutti i punti che non tornano

Il delitto di Cogne ha segnato profondamente la cronaca italiana: nel 2002 il piccolo Samuele Lorenzi fu trovato gravemente ferito e morì poco dopo in ospedale. La madre, Anna Maria Franzoni, venne condannata per l’omicidio, anche se il movente non è mai stato chiarito con certezza. Ecco cosa fa ora

Delitto di Cogne: che fine ha fatto Annamaria Franzoni. La nuova vita e tutti i punti che non tornano

A oltre due decenni dall'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi, si torna a parlare del caso che ha profondamente scosso l’Italia. Stefano Nazzi ha dedicato una puntata del programma Il Caso alla vicenda di Cogne e alla figura di Anna Maria Franzoni. L’episodio si apre con una testimonianza dell’imputata risalente al 9 novembre 2004, andata in onda nel talk show Porta a Porta. Il delitto, avvenuto il 30 gennaio 2002, resta uno dei fatti di cronaca nera più discussi e controversi nel nostro Paese, ancora capace di dividere l'opinione pubblica.

La ricostruzione

"Sembrava una mattina come tante", racconta Nazzi. Franzoni si stava preparando ad accompagnare il figlio maggiore, Davide, allo scuolabus situato a pochi minuti da casa. Il piccolo Samuele, che a volte la seguiva, quella mattina era rimasto all’interno dell’abitazione. Mentre scendeva le scale, la madre avrebbe sentito il pianto del bambino e lo avrebbe trovato seduto tra il soggiorno e la zona notte. Lo abbracciò e lo riportò a letto, un gesto che precede di poco la tragedia. Oggi, a 23 anni da quel giorno, Anna Maria Franzoni ha scontato la sua pena e si è ricostruita una vita lontana dai media. Nel 2003 ha dato alla luce il suo terzo figlio e, da allora, la famiglia vive lontana dai riflettori. Tuttavia, la casa di Montroz è rimasta impressa nell’immaginario collettivo come teatro di un mistero irrisolto, con molti interrogativi ancora aperti.

Che fine ha fatto Anna Maria Franzoni

Dopo aver terminato di scontare la pena detentiva, Anna Maria Franzoni è tornata alla vita lontano dai riflettori. Oggi risiede a Monteacuto Vallese, una piccola frazione del comune di San Benedetto Val di Sambro, nell’Appennino bolognese. Insieme al marito Stefano Lorenzi e ai figli Davide e Gioele, gestisce un agriturismo immerso nella quiete della campagna.

Il delitto di Cogne: la ricostruzione

È la notte tra il 29 e il 30 gennaio 2002. Anna Maria Franzoni, 30 anni, non riesce a dormire bene. Si sente poco in forma, accusando sintomi simili all’influenza. Il marito, Stefano Lorenzi, preoccupato, chiama il 118 poco prima dell’alba: nel referto si parla di ansia e disturbi leggeri. Nonostante il malessere, la donna decide di restare a casa con i suoi due figli: Davide, 6 anni, e Samuele, il più piccolo, di appena 3 anni. Il marito, titolare di una ditta di impianti elettrici, esce per andare al lavoro. Alle 8:16 del mattino, Franzoni accompagna Davide alla fermata dello scuolabus, distante circa trecento metri dalla villetta di Montroz, frazione di Cogne. Il bambino era già fuori casa a giocare in bicicletta. Rientrata pochi minuti dopo, racconta di essersi tolta le scarpe, aver indossato degli zoccoli e di essersi diretta nella camera da letto al primo piano, dove aveva lasciato a dormire Samuele. Secondo il suo racconto, erano le 8:24.

Quando entra nella stanza, nota che il piccolo è completamente coperto dalla trapunta, tirata fin sopra la testa. All’inizio pensa che si tratti di uno dei suoi soliti giochi. Ma avvicinandosi, si accorge che qualcosa non va. Crede voglia giocare, ma sente dei rantoli e lo scopre: ha una grossa ferita alla testa ed è ricoperto di sangue. Lo stesso che c'è su cuscino, lenzuola, pareti e pavimento. Franzoni spiegherà che credeva si trattasse di un rigurgito, o che a Samuele potesse essere "scoppiato il cervello". Samuele è stato ucciso nel lettone di mamma e papà con 17 colpi alla testa, schizzi di sangue che hanno raggiunto in alcuni punti fino a due metri di altezza per la violenza con la quale è stato colpito.

Il processo: indagini, condanna e scarcerazione

Fin dalle prime ore successive alla tragedia, i sospetti degli inquirenti si concentrarono su Anna Maria Franzoni, considerata l’unica persona presente in casa al momento dell’omicidio. Le indagini evidenziarono diverse incongruenze nei suoi racconti e alcuni elementi scientifici giudicati determinanti. Nel 2004 arrivò la prima sentenza: Franzoni fu condannata in primo grado a 30 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato. A pesare sulla decisione furono soprattutto le anomalie nelle sue dichiarazioni e alcune prove materiali, come le tracce di sangue rinvenute sul pigiama che indossava quella mattina — lo stesso che aveva tolto prima di accompagnare il figlio Davide allo scuolabus — e sugli zoccoli da lei usati.

Nel 2007, la Corte d’Appello, pur riconfermando la responsabilità dell’imputata, ridusse la pena a 16 anni grazie alla scelta del rito abbreviato. L’anno successivo, la Corte di Cassazione rese definitiva la condanna. Dopo aver scontato sei anni di carcere, nel 2014 ad Anna Maria Franzoni fu concessa la detenzione domiciliare. Dal 2018 ha ufficialmente terminato di scontare la pena: oggi è una donna libera.

Il movente: un enigma mai risolto

Nonostante la condanna definitiva di Anna Maria Franzoni, il movente dietro l’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi non è mai stato chiarito con certezza. La donna, infatti, ha sempre negato ogni responsabilità, ostacolando così la possibilità di individuare una motivazione precisa e diretta al gesto. Le sentenze, insieme alle perizie psichiatriche acquisite nel corso del processo, hanno delineato solo ipotesi su cosa possa aver spinto la madre ad agire. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Franzoni avrebbe agito in preda a un raptus, ovvero un’improvvisa perdita di controllo, scatenata da uno stato di forte stress, stanchezza accumulata e pressioni familiari.

Alcuni esperti hanno avanzato l’ipotesi che la donna fosse affetta da uno stato crepuscolare di coscienza: una particolare condizione psichiatrica in cui il soggetto può compiere azioni violente senza rendersene conto pienamente, e senza conservarne ricordo. Un’altra teoria, meno strutturata ma discussa in ambito peritale, suggerisce che Samuele possa aver avuto un episodio di irrequietezza o disagio, provocando nella madre una reazione sproporzionata, alimentata da un momento di estrema fragilità emotiva. Tutte ipotesi, appunto. Il vero movente resta, ancora oggi, uno dei tanti misteri irrisolti di uno dei casi più sconvolgenti della cronaca italiana.

I punti che non tornano

Nonostante la condanna definitiva di Anna Maria Franzoni per l’omicidio del figlio Samuele, il caso di Cogne continua a sollevare interrogativi rimasti senza risposta. Uno degli aspetti più discussi è l’assenza di un movente chiaro, ma non è l’unico elemento a lasciare spazio al dubbio. A oltre vent’anni dai fatti, non è mai stata ritrovata l’arma del delitto. Samuele fu colpito con estrema violenza alla testa da un oggetto contundente, ma l’oggetto utilizzato per l’aggressione non è mai stato identificato con certezza. Nel corso del tempo, si è ipotizzato potesse trattarsi di un mestolo, di un ferro da camino o di un altro utensile domestico, ma nessuna di queste piste è stata confermata da prove definitive. Questa lacuna investigativa ha alimentato la tesi, sostenuta dalla stessa Franzoni, della possibile presenza di un aggressore esterno, mai identificato.

Anche la tempistica dell’omicidio resta controversa. Secondo la ricostruzione ufficiale, Franzoni avrebbe avuto soltanto pochi minuti per colpire mortalmente Samuele, ripulire eventuali tracce, rimettersi in ordine e contattare i soccorsi, dopo aver accompagnato Davide alla fermata dello scuolabus. Alcuni esperti ritengono che il tempo disponibile fosse troppo ristretto per compiere tutte queste azioni senza lasciare segni evidenti o compromettere la scena del crimine.

Infine, non mancano dubbi nemmeno sulla prima chiamata al 118. Nel panico, Franzoni parlò di un "vomito di sangue", senza accennare alle profonde ferite alla testa riportate dal figlio.

Una dimenticanza? Un tentativo di depistaggio? O, come suggerito da alcuni psicologi, una reazione istintiva di negazione della realtà, tipica di uno stato di shock? Tutti questi elementi – la mancanza dell’arma, la brevità della finestra temporale e la vaghezza della prima chiamata – continuano ad alimentare ipotesi alternative, incertezze e discussioni, facendo del delitto di Cogne uno dei casi giudiziari più complessi e discussi della cronaca italiana.

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