I tre minorenni di Torino, che si sono accaniti contro un ragazzino con ritardo psichico sono delinquenti a 13 anni. Già noti a quella età alle forze dell'ordine per atti di vandalismo. Che vogliamo fare, recuperarli lasciandoli liberi di delinquere ancora oppure sbatterli dentro e lasciarceli a maturare (e marcire)?
Rocco Bruno
Caro Rocco,
leggendo la tua lettera non posso che concordare con rabbia lucida: quello che descrivi non sono più ragazzate, non è più bullismo spicciolo, è una deriva criminale che mette a rischio la convivenza civile. Non sono gli eccessi dell'adolescenza: sono atti violenti, premeditati, gratuiti, che segnano per sempre le vite delle vittime e forgiano carnefici in miniatura, pronti a diventare i delinquenti più spietati di domani.
La vicenda del ragazzo disabile di Moncalieri, che è stato sequestrato, umiliato, ustionato con la sigaretta, costretto a uscire seminudo e malmenato dai coetanei, è la fotografia più cruda di un fenomeno che si è dilatato in tutte le città. Non si tratta di un episodio isolato: c'è una pandemia di devianza giovanile che le statistiche cominciano a svelare senza più poter essere negate.
I numeri parlano chiaro. Nei servizi della giustizia minorile e nelle rilevazioni indipendenti si registra un aumento di minori e giovani adulti sottoposti a misure restrittive. In Italia le persone in carico ai servizi e le misure coercitive sono in crescita, con un incremento valutato intorno all'8% nei primi nove mesi del 2025 rispetto alla fine del 2024.
Le carceri minorili, prima considerate casi limite, ospitano oggi numeri inediti: si è passati da 381 giovani ristretti nel 2022 a oltre 500 nel 2024, con picchi e sovraffollamento denunciati dagli osservatori per i diritti dei detenuti. Questo trend non è marginale, bensì è la prova che la devianza minorile sta diventando un problema strutturale.
Parallelamente, i reati a danno di minori e i reati commessi da minori sono in aumento. I dossier delle organizzazioni che monitorano il fenomeno segnalano cifre record: nel 2023-2024 i reati contro i minori hanno superato soglie che non vedevamo da anni, con migliaia di episodi registrati e un incremento decennale significativo. E non è soltanto statistica. Ci sono operazioni di polizia in tutto il Paese che lo confermano. Maxi-operazioni contro le baby gang hanno portato a centinaia di denunce, arresti e sequestri di armi e droga. Solo in una recente azione sono stati coinvolti oltre cento giovani, molti dei quali minorenni, per reati contro la persona e il patrimonio. È un fenomeno che non si limita a una borgata o a una città: si ripete con varianti in tutto il territorio nazionale.
Allora, che fare? Prima di tutto smettiamola con il giustificazionismo tanto in voga nelle nostre aule e nelle nostre redazioni. Non è accettabile che l'essere minorenne diventi uno scudo automatico per la violenza. Non è accettabile che l'ideologia buonista di una certa parte politica e di certe associazioni pretenda di trasformare il diritto in pietà permanente verso il colpevole. La pietà senza rigore produce vittime nuove e manda in malora le vite di chi subisce.
Il principio è semplice: chi compie reati gravi deve essere fermato, processato e, se necessario, privato della libertà con conseguente detenzione in luoghi adeguati per consentire rieducazione reale e protezione della collettività. Il carcere minorile è la soluzione unica, l'alternativa alla totale impunità e alla devianza irreparabile. E lo Stato non può permettersi di lasciare questi ragazzi allo sbando sperando nella maturazione naturale. Quella strada spesso produce criminali professionisti, non più recuperabili.
Serve una risposta in tre direzioni: giustizia severa e rapida, ovvero procedimenti giudiziari celeri, applicazione di misure cautelari quando il fatto lo richiede, e pene adeguate, pena che includa percorsi obbligatori di rieducazione e controllo. Non vogliamo mandare in galera per sempre, vogliamo evitare che la devianza si cristallizzi. Inevitabilmente, questo richiede meno buonismo e più fermezza. Urge, in secondo luogo, un intervento sociale serio e precoce. Famiglie fragili, povertà educativa, dispersione scolastica e marginalità sono terreni fertili per le gang. Investire in doposcuola, centri di aggregazione veri, servizi sociali e famiglie di riferimento non è una spesa di lusso ma prevenzione utile. Tuttavia, la prevenzione non può sostituirsi al controllo. Essa deve integrarsi con la certezza della punizione quando la violenza scatta.
Infine, occorrono strategie di ordine pubblico. Più polizia nei luoghi sensibili, repressione dello spaccio che facilita la degenerazione giovanile, e interventi mirati dove le bande si radunano. Le forze dell'ordine devono essere legittimate a operare con efficacia, non demonizzate come fossero il problema, non delegittimate come fossero fuori legge.
Non accetto l'alibi che sono bambini quando si parla di ustioni, rasature, umiliazioni e sevizie. Questa non è più innocenza, è criminalità. E chi pensa di risolvere tutto con passeggiate nella periferia o con sermoni ideologici si sbaglia di grosso. Serve durezza con intelligenza: fermezza nella legge, capillarità negli aiuti e zero, ripeto zero, tolleranza per chi infierisce sui più deboli.
Per concludere, Rocco: la domanda provocatoria che poni, «lasciarli liberi di delinquere o sbatterli dentro?», non è una scelta tra due estremi. È un invito a non perdere tempo. Occorre prevenire, sì, però, se la prevenzione fallisce e il ragazzo diventa carnefice, lo Stato deve intervenire con strumenti che non lascino impunità. Perché ogni esistenza lasciata marcire nella devianza è una sconfitta collettiva: per la vittima, per la famiglia, per la città.
Il
resto sono parole vuote. La politica smetta di mettersi la maschera della compassione e torni a fare il suo mestiere: proteggere i cittadini onesti e rieducare chi sbaglia, con mano ferma e testa lucida. E con il carcere.