Giuseppe Delmonte, orfano di femminicidio: “La mia storia di sopravvissuto. Oggi lotto per i figli invisibili”

L'uomo, che oggi ha 47 anni, ne aveva 19 quando sua madre Olga Granà venne uccisa da suo padre in strada ad Albizzate, in provincia di Varese

Giuseppe Delmonte, orfano di femminicidio
Giuseppe Delmonte, orfano di femminicidio

“All’epoca fui completamente ignorato dalle istituzioni. Me ne rendo conto adesso, perché allora sembrava normale restare inascoltati”. Giuseppe Delmonte oggi ha 47 anni: ne aveva 19 quando sua madre Olga Granà venne uccisa da suo padre in strada ad Albizzate, in provincia di Varese. Salvatore Delmonte l’aggredì brutalmente con un’ascia che aveva fatto affilare il giorno prima: i colpi furono sette. Era il 26 luglio 1997. Una tragedia annunciata. Olga si era separata dal marito cinque anni prima, dopo tante botte, angherie, minacce. Lo aveva anche denunciato: a volte le segnalazioni erano partite dal pronto soccorso a cui aveva dovuto rivolgersi dopo i pestaggi. Nessuno, però, era intervenuto. Del resto, negli anni Novanta, non esisteva la parola ‘femminicidio’, né quella di ‘stalking’.

Sono passati quasi 28 anni da quel giorno d’estate. Olga era uscita per la prima volta da sola. Doveva recarsi all’ufficio postale per ritirare un vaglia del suo ex marito, il primo che le aveva mandato dopo la separazione. Aveva insistito per non portare con sé sua figlia che desiderava accompagnarla. “Mio padre aveva promesso di ucciderci tutti” sottolinea Giuseppe. Salvatore l’aveva attesa e massacrata. Lei, in un ultimo sacrificio da madre, era riuscita a evitare che i suoi figli facessero la stessa fine.

Giuseppe, oggi, si sente un sopravvissuto. A Tag24.it, racconta la sua storia commuovendosi, senza nascondere l’incredulità per quanto accaduto a sua madre e per l’abbandono - morale, psicologico ed economico - a cui sono stati condannati lui e i suoi fratelli da parte dello Stato. Gli anni successivi al femminicidio sono stati di “totale buio”. “Non nascondo che ho anche pensato di farla finita. Era come se qualcuno avesse spento di colpo la luce: ero un ameba perché era finito tutto, aveva vinto” racconta.

Poi, a un certo punto, è scattato qualcosa dentro di lui. “Mi sono ricordato della rinascita di mia madre dopo essersi separata da mio padre. Io avevo conosciuto due mamme, completamente diverse tra loro. La prima, succube del marito, priva di ogni stimolo ed emotività. L’altra, dinamica, che amava la vita, si era trovata un lavoro e non vedeva l’ora di fare tante cose con i suoi figli. Mi sono detto: ‘Se mia madre è riuscita a risollevarsi, allora posso farcela anch’io’. Lui aveva vinto su di lei, ma non avrebbe potuto vincere su di me”.

Il cambiamento è arrivato con quel meccanismo di difesa che, in psicologia, si chiama “rimozione totale”. “Mi sono dissociato completamente. Ho cambiato casa, lavoro, amicizie: da quel momento in poi, a chiunque mi chiedesse che fine avessero fatto i miei genitori, avrei raccontato che erano morti in un incidente stradale. Per vent’anni ho dato questa versione, buttandomi totalmente sul lavoro per non pensare”.

A un certo punto, però, la vita ha chiesto il conto. “Quando è finita la mia storia d’amore più lunga, durata 15 anni, ho affrontato un percorso di psicoterapia che mi ha salvato. Mi stavo completamente abbandonando a questa esistenza falsa. C’era addirittura chi mi diceva: ‘Nella prossima vita voglio rinascere te’. Non conoscevano la verità: era arrivato il momento di raccontarla”.

Giuseppe parla di suo padre, che oggi ha 79 anni, con voce decisa, quasi senza tradire alcuna emozione. Dopo il percorso di psicoterapia, l’ha incontrato una sola volta in carcere, dove sta scontando una condanna all’ergastolo. “Un narcisista patologico da manuale. Mia madre diceva sempre che era l’uomo che non si poteva non sposare. I suoi amici lo descrivevano come l’amico che tutti avrebbero voluto avere. Era un bell'uomo, intraprendente, un grandissimo lavoratore. Poi in casa era una bestia, faceva delle cose terribili” racconta Giuseppe.

“Quando sono andato in carcere gli ho detto tutto quello che pensavo di lui. Non se lo aspettava: credeva di trovarsi di fronte il ragazzino di 13 anni che aveva lasciato anni prima, non un uomo di 40 anni ormai risolto. In quel momento ha cercato di giustificarsi. Colpevolizzava mia madre, senza neanche chiamarla per nome: allora ho capito che non era cambiato” spiega Giuseppe. Andando a trovarlo, è come se avesse chiuso un cerchio. “Lui ha abbassato lo sguardo, come pretendeva che facessimo noi da piccoli. Sono uscito dal penitenziario pensando: ‘Stavolta ho vinto io’”. Da allora sono trascorsi sei anni. A ottobre del 2024 Giuseppe ha ricevuto una telefonata dal carcere che lo ha messo in crisi: suo padre era in gravi condizioni. “Ho avuto una reazione inaspettata: ho iniziato a piangere. In quel momento mi è crollato il mondo addosso. Poi ho scoperto altre cose su di lui, di cui non ero a conoscenza. Ho detto basta”.

Spesso racconta che suo padre non solo gli ha tolto sua madre, ma anche distrutto il suo sogno di diventare chirurgo. “Con mia madre avevo progettato tutto. Quando lei è stata uccisa, io non ce l’ho più fatta mentalmente a sostenere un percorso del genere”. Giuseppe Delmonte ha trovato comunque il modo di realizzare il suo desiderio. “Oggi sono strumentista di sala operatoria e lavoro a contatto con i migliori professori universitari di Milano. Ne sono felice”.

Dopo aver vissuto sulla propria pelle una violenza tanto devastante, ha deciso di battersi affinché gli orfani di femminicidio non restino invisibili. Ha fondato l’associazione Olga per educare contro ogni forma di violenza: in nome, e nel ricordo, di sua madre.

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