Lunedì primo agosto 2005: a Brescia il caldo afoso della pianura impregnava ogni passo. In città davanti al civico 15 di via Ugolini, il citofono dei coniugi Aldo Donegani, 77 anni, e Luisa De Leo, 61, continuava a suonare a vuoto da giorni. Nessuna risposta al cancello così come al telefono più volte fatto squillare da Luciano De Leo, un nipote della coppia che, per inciampo della vita, è un carabiniere in servizio a Castelfidardo.
La sparizione e le ipotesi
De Leo avrebbe dovuto trascorrere qualche giorno di vacanza con gli zii. Ma non li trova: spariti nel nulla come inghiottiti dall’afa bresciana. È lui a chiamare i vigili del fuoco e a far scattare le denuncia. E dire che per giorni De Leo aveva cercato inutilmente notizie degli zii contattando anche l'altro nipote della coppia, Guglielmo Gatti, 41 anni. Gatti, uomo riservato e solitario, abitava al secondo piano della villetta dei due. Il primo agosto rincasò diverse ore dopo il tentativo di De Leo di rintracciare la coppia. Sul citofono aveva appeso un biglietto “torno dopo le 17“ e così avvenne.
Al parente disse di non vedere gli zii da qualche giorno. Quando i Vigili del Fuoco entrarono nell’appartamento tutto era in ordine: l'auto dei coniugi Donegani, una Renault Clio di colore nero, era nel garage di casa, con chiavi inserite nel cruscotto e funzionante, così come la casa era in ordine fino all’ultimo cassetto. Davanti al giallo di una scomparsa inspiegabile le autorità non persero tempo e le ricerche di polizia e carabinieri scattarono subito. Inizialmente le ipotesi di lavoro degli inquirenti furono tre: da una parte la coppia si poteva essere allontanata volontariamente, e a sostenere questa pista c'era la testimonianza di un loro amico che tempo prima aveva raccolto una confidenza in tal senso di Aldo e Luisa, oppure erano rimasti vittime di un incidente durante una delle loro tante escursioni lungo i sentieri di montagna. Terzo scenario investigativo era quello peggiore: un duplice omicidio a cui però sarebbe servito un movente e una mano assassina.
Insomma un giallo che nell’estate del 2005 presto catalizzò l’attenzione della stampa nazionale. E inevitabilmente ogni cronista si ritrovò a parlare, filtrato dalle sbarre del cancello chiuso della villetta di via Ugolini, con il nipote Guglielmo, studente fuoricorso di Ingegneria al Politecnico di Milano e orfano da pochi mesi.
La svolta con i corpi fatti a pezzi
La svolta due settimane dopo la denuncia, il 17 agosto, quando in una scarpata di 400 metri in Val Paisco, sui monti dell’alta Val Camonica tra le province di Brescia e Bergamo furono trovati una decina di sacchetti dell'immondizia contenenti i resti fatti a pezzi dei corpi di Aldo e Luisa Donegani. Tra i poveri resti della coppia anche le cesoie con tracce di sangue delle vittime. All’appello però mancavano solo le teste, ritrovate settimane dopo da alcuni cercatori di funghi all’imbocco delle gallerie della statale 510, sul lago d’Iseo.
Da qui l’arresto di Guglielmo Gatti, incastrato da prove considerate inequivocabili: la testimonianza di un ragazzo di 14 anni, che il primo agosto, due giorni dopo la scomparsa dei Donegani, verso le 15,30 si trovava in macchina col padre sul passo del Vivione, vicino al luogo del ritrovamento dei corpi e che riconobbe in Guglielmo Gatti il conducente dell'auto, una Fiat Punto blu che li aveva sfiorati, rischiando un incidente frontale. Altro elemento fondamentale fu la testimonianza di Cristina Cominelli, proprietaria dell'hotel Il Giardino di Breno, in Val Camonica, che ricordava l'arrivo di Guglielmo Gatti nel suo hotel verso le 3 di notte tra il 31 luglio e il primo agosto.
Il suo garage come mattatoio
La prova regina del massacro arrivò dall'esame del box del 41enne, definito "il mattatoio" dal procuratore Giancarlo Tarquini: ogni angolo era segnato da residui di sangue. Secondo quanto riferito dagli investigatori, la prova con il luminol, una sostanza che rivela la presenza di sangue anche in quantità infinitesimali, dette risultati inequivocabili. "Quando abbiamo acceso le lampade tutto il garage è diventato blu, sia per terra che sulle pareti, fino all'altezza di un metro", dissero gli inquirenti. In quella stanza Gatti sezionò i corpi dei due coniugi imbracciando le cesoie poi gettate con i poveri resti.
Gatti, accusato di duplice omicidio premeditato, vilipendio e occultamento di cadavere è stato condannato in via definitiva all'ergastolo con sentenza resa definitiva dalla Cassazione il 12 febbraio 2009. Ora sconta la sua pena nel carcere milanese di Opera, dove passa il tempo leggendo libri, proprio come faceva quando si sedeva in balcone, nella casa di via Ugolini.
Lui si è sempre dichiarato innocente. Ma per il procuratore capo, il nipote è stato "l'artefice di un piano ben congegnato e spietato", che sarebbe sfociato in un delitto perfetto se "non ci fossero stati tempi rapidissimi nelle indagini": la velocità ha consentito il ritrovamento dei resti prima che la strada verso il Vivione venisse chiusa e gli animali contribuissero alla sparizione dei resti della coppia.
Il movente mancante
Dopo 18 anni però manca ancora un movente. Per gli inquirenti ad armare la mano di Gatti fu l'odio per gli zii, tanto esuberanti loro quanto chiuso e taciturno lui. "Il nostro convincimento sul movente è supportato da quello che Gatti ci ha raccontato in passato, soprattutto sui rapporti freddi, gelidi che c'erano tra lui e gli zii. Non si facevano neanche gli auguri a Natale", avevano spiegato gli investigatori. Rancori e dissapori ventennali tra le due famiglie che risalirebbero a quando lo zio Aldo aveva sposato in seconde nozze la donna che veniva in casa a fargli le pulizie, Luisa De Leo, di sedici anni più giovane e divorziata.
Un giallo con un colpevole ma, apparentemente, senza movente. E ora che la villa del massacro, venduta all’asta nel 2017, sarà restaurata, Brescia cerca di lasciarsi alle spalle l’orrore della mattanza di via Ugolini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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